Anche in Liguria le imprese faticano a trovare addetti e lamentano l’assenza della politica. La politica respinge le accuse al mittente: il governatore Giovanni Toti ha detto che le imprese dovrebbero “impegnarsi ad assumere i giovani che noi formiamo con stipendi compatibili e appetibili”. Anche l’assessore Marco Scajola ha rivendicato quanto fatto dalla Regione in materia di formazione. Chi ha ragione?
Come spesso accade, la questione è complessa e va vista da più prospettive. Che ci sia un problema di livelli salariali, in Italia, è evidente. Ma questo dipende anche dalla scarsa dinamica della produttività. Inoltre, sebbene quello delle retribuzioni possa essere un pezzo del problema, non contribuisce a spiegarlo interamente. Infatti, i dati Unioncamere-Anpal suggeriscono che le difficoltà di reperimento non dipendono solo dalla mancanza di candidati (cosa che potrebbe denunciare la poca attrattività della paga) ma anche dalla preparazione inadeguata.
Allo stesso modo, il problema non riguarda solo posizioni umili, ma anche quelle meglio pagate, come i dirigenti (con un 65,5 per cento di difficoltà a reperire) e le professioni con elevato livello di specializzazione (48,3 per cento). Il fenomeno si è andato acuendo dopo la pausa forzata imposta dalle restrizioni per il Covid. Le spiegazioni sono tante e non necessariamente alternative.
Qualcuno suggerisce che il problema sia stato, se non determinato, certamente amplificato dalla trasformazione dell’economia e di conseguenza dal mix di competenze domandate che si è determinata dopo la pandemia. Altri puntano il dito contro la concorrenza sleale del lavoro nero o col disincentivo al lavoro insito nel reddito di cittadinanza (spiegazioni, queste ultime, che al massimo possono applicarsi alle occupazioni a basso reddito). Altri ancora osservano che è la conseguenza inevitabile del declino demografico. Altri, infine, ritengono che non sempre il sistema formativo sia collegato alla reale domanda di fabbisogni delle imprese.
C’è forse un po’ di verità in ciascuna di tali interpretazioni. Se è così, allora non esiste una singola strategia né una soluzione che possa sortire effetti miracolosi nell’immediato. Bisogna, piuttosto, ragionare in prospettiva e individuare delle direttrici di intervento, a livello regionale e nazionale. Vi sono almeno quattro grandi aree, oltre ovviamente a chiedere alle imprese di valorizzare adeguatamente il lavoro.
Il primo ambito sta nel miglioramento del supporto agli individui in cerca di occupazione. È significativo che, sempre secondo Unioncamere-Anpal, solo il 9,3 per cento delle imprese usi i centri per l’impiego, contro il 42,5 per cento che si affida prevalentemente a canali informali. Le stesse Agenzie per il lavoro andrebbero maggiormente utilizzate. Per la stessa ragione, vanno ulteriormente migliorati gli strumenti per la formazione. Come ha osservato Michele Faioli a un convegno del Cnel proprio su questi temi alcuni giorni fa, i dati sul lavoro sono confinati in svariati silos – Anpal, Regioni, centri per l’impiego, ecc. – che non si parlano tra di loro, vuoi perché non sono in grado di farlo, vuoi perché non vogliono farlo. Senza un utilizzo esteso e profondo dei dati, le politiche attive non potranno mai decollare.
Poi ci sono due altri aspetti. Uno riguarda la formazione dei giovani che si affacciano per la prima volta al mondo del lavoro. Sarebbe ingenuo pensare che l’Università possa consegnare alla loro vita adulta dei ragazzi già in grado di inserirsi immediatamente. Per certi versi, non è neppure il suo mestiere. Ma occorre sforzarsi di accorciare la distanza tra i curricula di studio e le esigenze del mondo del lavoro, anche semplicemente fornendo informazioni adeguate per indirizzare gli studenti, e sviluppare percorsi maggiormente orientati al lavoro (come gli Its). A maggior ragione questo vale per i tanti programmi post lauream, i quali dovrebbero essere occasione per favorire il match tra domanda e offerta di lavoro e non semplicemente lo strumento per il rilascio di attestati di frequenza.
Da ultimo, la demografia: la popolazione italiana continua a diminuire. L’immigrazione, unico strumento per tamponare questa emorragia nel breve termine, segue percorsi spesso irrazionali (si pensi all’odiosa pratica dei click day) quando non irregolari. Trovare il modo di aprire e allargare i canali regolari di ingresso nel nostro Paese, specie per quelle figure che hanno i requisiti richiesti dalle imprese, aiuterebbe a fare ordine e a impedire alla nostra economia di scivolare in quella assurda trappola in cui i disoccupati non trovano lavoro e le imprese non trovano lavoratori.
da Il Secolo XIX, 7 marzo 2023