Promettere 780 euro al mese netti a chiunque non abbia redditi dichiarati, più la metà per ogni altro familiare sopra dei 14 anni (quoziente 0,5) e altri 234 euro (quoziente 0,3) per quelli sotto – il reddito di cittadinanza del Movimento 5 stelle, argomento caldo ieri nelle ricerche su Google – significa elargire a una famiglia con un figlio 1.560 euro; 1.950 se i familiari a carico sono tre, 2.184 con un bambino. Al centro-sud dove i 5 stelle hanno fatto il pieno la promessa beneficerebbe 4,9 milioni di famiglie, e si è rivelata l’arma letale delle elezioni. Poco importa se poi lo stipendio di stato va a chi ha introiti in nero. La copertura di questa misura assistenziale che non eguali nel mondo è stimata in 29 miliardi annui, ai quali se ne aggiungono due per “potenziare i centri di formazione per i disoccupati”.
Il potenziamento, come ha spiegato il ministro in pectore allo Sviluppo economico a 5 stelle, Lorenzo Fioramonti, prevede il reinserimento nel mondo del lavoro. Però, “date le specificità dell’Italia”, la perdita dei benefici avverrebbe non alla prima offerta d’impiego come in Germania a Francia, ma alla terza. Né il ridimensionamento della cassa integrazione, la vera anomalia rispetto ai paesi con politiche attive per la disoccupazione. E le famiglie camperebbero stipendiate dal denaro pubblico anche tutta la vita: perché i 5 stelle offrono anche la pensione di cittadinanza, sempre di 780 euro netti a tutti i pensionati, 1.170 per la coppia. Luigi Di Maio e i suoi indicano le coperture: “Dai 30 ai 34 miliardi dei tagli di spesa proposti dall’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli”, nonché “indirizzando le scelte dei consumatori in modo responsabile”, cioè tassando di più il gioco d’azzardo, chi ha concessioni petrolifere e autostradali. L’economista Veronica De Romanis, che con Cottarelli lavora all’Osservatorio sulla spesa pubblica, ha chiesto inutilmente a Fioramonti quali spese taglierebbe, a cominciare dalle tax expenditures, le detrazioni e deduzioni fiscali che la fanno da padrone in denuncia dei redditi. Ma non ha avuto risposta, se non il refrain su auto blu, trasparenza, e spese della politica (che secondo loro varrebbero 50 miliardi l’anno). In compenso gli ex grillini aggiungono alla lista di promesse la riduzione delle aliquote Irpef ed il taglio “drastico” dell’Irap. E “10 mila assunzioni territoriali per valutare se i migranti hanno diritto di restare o no”. Tuttavia si impegnano a tagliare il debito pubblico in rapporto al pil di 40 punti in 10 anni: ad oggi, 920 miliardi, 92 l’anno; ma il proposito è congegnato tenendo conto dell’aumento del pil che la ricetta 5 stelle farebbe miracolosamente esplodere. Anche con una crescita stabile del 2 per cento l’anno per 10 anni si tratterebbe di una 5060 miliardi l’anno di debito da abbattere. Come, viste le elargizioni da dare a disoccupati e pensionati? Mistero. E come voto di scambio, niente male.
Ma neppure l’altra vincitrice, la Lega di Matteo Salvini, scherza. L’abolizione della legge Fornero sulle pensioni, punto “irrinunciabile”, è stimata dalla Corte dei conti, dall’Ufficio parlamentare di Bilancio e da Eurostat in 20 miliardi l’anno per la prossima legislatura, 280 nei prossimi 42 anni. L’altro piatto forte salviniano è la flat tax, che il leader leghista vorrebbe al 15 per cento e la coalizione di centrodestra al 23. Secondo i calcoli del sito di economisti lavoce.info, questa produrrebbe minori entrate per 95 miliardi, che invece Silvio Berlusconi ha indicato in 30-40. Da coprire recuperando “metà dell’evasione fiscale”, grazie al maggior appeal della flat tax, cioè una cifra tra 45 e 47 miliardi. Ne restano fuori ottimisticamente circa 15, ma secondo l’istituto Bruno Leoni i minori introiti varierebbero tra i 20 e i 70 miliardi a seconda della formula prescelte (e anche qui a seconda del ricorso al taglio delle tax expenditures). Salvini, stuzzicato a proposito di una possibile alleanza populista tra Lega e 5 stelle, ha dichiarato che “prima di redistribuire risorse occorre produrla”.
Quindi, pare, nessuna apertura al reddito di cittadinanza. Ma al di là dei propositi, come conciliare l’assistenzialismo con le promesse di riduzione fiscale? I conti non tornano. E torneranno ancora meno se i due leader sovranisti, Salvini e Di Maio, rispolverassero le mai sopite nostalgie anti euro. In questo caso ci penserebbe direttamente la Troika spedita da Bruxelles: il 30 per cento del nostro debito è infatti in mani straniere, e supportato da garanzie collaterali. Nessun dubbio che verrebbero a riprenderselo.
Da Il Foglio, 6 Marzo 2018