Con rigore e con meno barriere

Verso una maggiore apertura economica

23 Giugno 2017

Il Corriere del Ticino

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Anche in economia i fatti sono tenaci e il tempo è galantuomo. Per qualcuno si tratta solo di luoghi comuni o modi di dire, invece spesso queste due affermazioni sono verificabili nella realtà, se si ha la voglia e la pazienza di seguire l’evolversi dei dati. Prendiamo due punti fondamentali nel dibattito economico attuale, l’austerità-rigore e il protezionismo. Entrambi non sono solo terreni di confronto teorico, sono anche snodi reali, legati a scelte dei Governi e degli attori economici che hanno poi riflessi nella nostra vita di tutti i giorni. Sull’uno e sull’altro versante i dati nel tempo mostrano una realtà diversa da quella contenuta nella narrazione che per molti aspetti è stata sin qui prevalente.

Cominciamo dal rigore. Andando controcorrente, l’economista italiana Veronica De Romanis ha raccolto nel suo recente libro L’austerità fa crescere. Quando il rigore è la soluzione una serie di dati sull’Europa, che in parte anche su queste colonne abbiamo cercato di mettere in evidenza, strada facendo. Ne emerge anzitutto che i Paesi che hanno utilizzato il rigore, per virtù propria o perché costretti dalla crisi dei debiti, e che quindi negli ultimi cinque anni hanno cercato di riaggiustare i conti pubblici anche riducendo l’incidenza della spesa pubblica sul PIL, ebbene sono al tempo stesso quelli in cui nel 2016 la crescita economica è stata superiore alla media europea (ad esempio: Irlanda +5,2%, Spagna +3,2%, Regno Unito +1,8%) e in cui la disoccupazione è scesa. Al contrario, i Paesi che hanno ridotto molto poco oppure non hanno ridotto l’indebitamento pubblico e il peso delle parti improduttive della spesa pubblica (tra questi anche Francia e Italia), ebbene hanno avuto un tasso di crescita inferiore e tensioni ancora forti sulla disoccupazione.

Non è peraltro vero che il rigore adottato o iniziato da una parte dei Governi europei abbia sempre portato questi a sconfitte elettorali. Tra il 2008 e il 2015 otto Governi di Paesi della UE (tra cui Estonia, Germania, Gran Bretagna, Lettonia, Olanda) su ventotto sono stati rieletti nonostante le loro politiche di rigore. Due tra i Governi che hanno invece perso, in Grecia e in Portogallo, sono stati in effetti accusati di eccessiva austerità. Ma cosa hanno poi fatto i nuovi Governi, quello greco di Tsipras e quello portoghese di Costa, al di là dei proclami iniziali? Hanno applicato misure di rigore. E i pur timidi spiragli di crescita che si registrano nell’un caso come nell’altro sono legati anche a queste misure. Inoltre, non ha elementi sufficienti neppure la narrazione di un populismo che avrebbe preso piede a causa dell’austerità-rigore. Il populismo precede di molto nel tempo le politiche di austerità ed è salito anche in Paesi che non sono stati alla testa del rigore; vedi di nuovo, tra gli altri, Francia e Italia. Per capire l’ascesa del populismo (peraltro non inarrestabile, come si è visto proprio in Francia, in Olanda, in Austria), bisogna forse guardare più alle tensioni legate alla corruzione e all’immigrazione. Se si considera poi populista anche la linea di Trump negli USA, allora c’è un’altra conferma del mancato legame cori il rigore: le politiche del precedente presidente, Obama, a cui Trump reagisce, non sono state all’insegna dell’austerità.

Ma il discorso di Trump ci porta soprattutto all’altro punto fondamentale, quello del protezionismo, sostenuto dal nuovo presidente USA. Secondo quanti appoggiano il protezionismo, questo sarebbe necessario per difendere le economie nazionali. Ma l’analisi della storia economica porta alla conclusione opposta. Tra i molti studi a favore dell’apertura economica, ce n’è uno recente dell’Istituto Bruno Leoni, L’indice di globalizzazione. L’esposizione dei Paesi agli scambi economici (apertura contro il protezionismo) è uno dei criteri di questo indice, insieme agli investimenti da e per l’estero e al grado di connettività. I dati, riferiti agli anni tra il 1994 e il 2015, mostrano come, nel complesso, più l’indice di apertura economica è cresciuto, più ci sono stati effetti positivi sul PIL globale pro capite a parità di potere d’acquisto, sulla disoccupazione, su altri fattori economici e sociali.

D’altronde, per capire quanto sia sbagliato aumentare le barriere commerciali ed economiche anziché ridurle, basta analizzare questa volta un fatto di queste settimane. Il presidente USA Trump ha attaccato la Germania per il surplus che questa ha nei confronti degli Stati Uniti (64,8 miliardi di dollari nel 2016), ipotizzando anche dazi antitedeschi. A parte che chi esporta più di quanto importi, rispettando le regole, non è colpevole ma semmai meritevole (anche la Svizzera d’altro canto ha un surplus), il meccanismo protezionista rischia anche di essere autolesionista. Nel 2015 gli investimenti diretti della Germania negli USA sono arrivati a 255 miliardi di dollari, con un forte aumento negli ultimi anni. Gli investimenti diretti USA in Germania sono meno della metà. E ci sono oggi 4.000 aziende tedesche che danno lavoro a 670 mila dipendenti negli USA. Il settore auto tedesco, oggetto di lamentele particolari da parte di Trump, produce anche negli Stati Uniti. Gli addetti americani dell’auto tedesca sono circa 110 mila, senza contare l’indotto. Attorno al 40% dei veicoli prodotti negli USA da case tedesche è venduto sul mercato americano, un quarto è esportato in Europa e un altro quarto in Asia; c’è dunque, paradossalmente ma non troppo, anche un contributo tedesco all’export statunitense. È evidente dunque che una parte non piccola del surplus complessivo germanico viene reinvestita negli Stati Uniti, con chiari vantaggi per entrambe le parti. Spezzare questi meccanismi legati all’apertura economica, tornando a un maggiore protezionismo, sarebbe negativo per tutti. Sono cose che ben sa la Svizzera, Paese che ha costruito i suoi successi basandosi appunto anche su elementi come l’apertura economica e il rigore.

Da Il Corriere del Ticino, 23 Giugno 2017

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