25 Maggio 2017
Il Foglio
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Teoria e scienze sociali
L’impresa pubblica colpisce ancora. Lunedì scorso il presidente della Commissione industria del Senato, Massimo Mucchetti, ha organizzato un convegno per discutere de “Lo Stato azionista. Finalità, regole, strumenti”. Chi si aspettava un bilancio critico della stagione delle privatizzazioni è stato accontentato. Le imprese pubbliche si è detto offrono una redditività pari o superiore a quelle private; la grande industria e la stessa capitalizzazione di Borsa, nel nostro paese, sono dominate da soggetti a capitale pubblico; non vi è evidenza di una gestione particolarmente inefficiente.
Lo sforzo revisionistico va ben al di là del possibile intervento pubblico temporaneo in condizioni eccezionali e nel nome di obiettivi più ampi (come la stabilità del sistema finanziario): l’arretramento dello stato degli anni Novanta e Duemila non va interpretato come una svolta, ma come una parentesi. Di quelle che è l’ora di chiudere.
Sfortunatamente, mentre si evocava il demone dello stato, si agitava inosservato tra gli affreschi della Sala Zuccari il proverbiale elefante nella stanza. L’oggetto dell’indagine ne era la proboscide: le imprese, anziché i mercati. Ma la performance delle imprese non è un bene pubblico, perché i suoi frutti ricadono sugli azionisti. Il buon funzionamento del mercato, invece, corrisponde a un interesse generale. Per valutare le privatizzazioni, allora, non basta vivisezionare i bilanci di un gruppo di aziende, peraltro figlio del doppio pregiudizio per cui l’industria è rappresentativa dell’economia nel suo complesso e il Big business dell’industria (con buona pace delle privatissime mid cap che hanno trainato la ripresa post crisi). Occorre piuttosto guardare a un intero sistema di coordinate che, nel frattempo, è cambiato; ed è cambiato proprio perché, e nella misura in cui, l’azionista pubblico si è defilato. Infatti, il principale obiettivo delle privatizzazioni non era né rimettere in sesto i carrozzoni pubblici, né generare gettito. Era piuttosto aprire dei mercati, separando il destino delle aziende da quello dei contribuenti. In Italia, i casi scuola sono quelli delle telecomunicazioni e del trasporto aereo: forse le imprese privatizzate hanno deluso gli azionisti, ma vi sono pochi dubbi che, grazie al combinato disposto di privatizzazione e liberalizzazione, i consumatori abbiano ottenuto un servizio di qualità migliore e a prezzi più bassi.
È su questo sfondo che si staglia il corpaccione dell’elefante: la partecipazione pubblica al capitale delle imprese costituisce un impedimento al funzionamento del mercato, per un motivo specifico e uno generale. Quello specifico riguarda i settori nei quali ancora opera la maggior parte delle aziende controllate dallo stato e dagli enti locali, ossia settori regolati. In questi casi, si crea un perverso conflitto di interessi tra lo stato azionista (che vuole i soldi, tanti maledetti e subito) e lo Stato regolatore (che dovrebbe invece tutelare i consumatori). Infatti, la mera presenza dell’azionista pubblico costituisce in sé e per sé un disincentivo all’arrivo di concorrenti, nello stesso senso in cui pochi accetterebbero di disputare una partita nella quale il capitano della squadra avversaria è figlio dell’arbitro. Si noti che, per scoraggiare l’ingresso dei rivali, non serve che l’arbitro sia disonesto.
C’è un aspetto ancora più importante. La concorrenza non dipende soltanto dalla effettiva liberalizzazione dei mercati dei prodotti e dei servizi: essa non può esistere se non si apre contestualmente il mercato dei fattori. Lo stato è un azionista del tutto peculiare, perché non prende la decisione di mantenere o cedere le proprie partecipazioni in funzione dell’utilità attesa: lo fa per ragioni politiche. Di conseguenza, le aziende pubbliche sono per definizione non contendibili. Lo stato rappresenta pertanto una diga contro la “distruzione creatrice” e un freno contro l’innovazione. Impedendo la riallocazione degli asset a favore degli offerenti in grado di meglio valorizzarli, impone un costo all’economia che, come il battito d’ali della farfalla, si propaga nel tempo e nello spazio, impedendo al mercato di svolgere la sua funzione fondamentale, che è appunto quella di allocare le risorse.
Una seria discussione sui successi e gli insuccessi dello stato azionista non può dunque limitarsi al dito delle imprese, ma deve necessariamente guardare alla luna dei mercati e dei consumatori. Noi non sappiamo e non possiamo sapere come sarebbero andate le cose, se lo stato avesse davvero rinunciato all’intervento diretto dell’economia, confinandosi al ruolo di regolatore: ma è proprio per questo che il mercato va lasciato libero. Perché altrimenti innumerevoli strade resteranno inesplorate, infinite innovazioni (e innovatori) rimarranno fuori dalla porta. A dispetto del titolo, il convegno ha dato grande spazio a “regole” e “strumenti” dello stato azionista, ma ha lasciato in ombra le sue finalità, che non possono prescindere dagli incomprimibili vincoli e limiti cognitivi propri della condizione umana. Ci sono più cose in cielo e in terra che non indicazioni di policy nei bilanci delle imprese pubbliche.
Da Il Foglio, 25 maggio 2017