30 Maggio 2022
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Diritto e Regolamentazione
Cosa ci rende più disponibili ad accettare riforme di liberalizzazione? Proprio adesso che la concorrenza in Italia è sommamente impopolare, vale la pena di interrogarsi su quali sono i fattori più radicati e profondi che rendono alcune società inclini ad accettare la libertà economica, e altre meno. E’ verosimile che a un certo punto l’entusiasmo ideologico per lo Stato imprenditore venga meno: magari quando ragioneremo su quante delle sue promesse è stato in grado di mantenere. Ma le ideologie e le appartenenze politiche sono realtà relativamente superficiali, epidermiche, rispetto a ciò che davvero muove il nostro modo di vivere e di pensare.
In un loro recente lavoro, Augustin Landier dell’Ecole des hautes études commerciales di Parigi e David Thesmar della Sloan School of Management dell’Mit cercano di spiegare il sostegno (e, simmetricamente, l’opposizione) a libertà economica e mercati aperti utilizzando un sondaggio svoltosi su circa 6000 persone negli Stati Uniti, in Francia e Germania. Le domande sono state concepite per far sì che gli individui censiti si confrontassero con situazioni semplificate, nella speranza che in tal modo evitassero di aggrapparsi a idee strutturate e visioni del mondo abbracciate più consapevolmente. O almeno così sostengono gli autori.
In realtà, da un esame per quanto sommario non è ben chiaro se quell’obiettivo sia stato raggiunto: chiedendo alle persone se sono favorevoli a comprare nuovi treni per sostenere l’economia locale, è difficile che, almeno coloro che sono più politicamente informati, rispondano senza davvero ricondurre quella questione a una cornice politica più ampia. Landier e Thesmar però dimostrano che le preferenze dei singoli non sono correlate con il modo in cui costoro si collocano nel continuum destra-sinistra. I sussidi alle imprese improduttive (ancorché locali) e l’avversione al protezionismo (anche selettivo: mirato, per esempio, verso nazioni con valori diversi) non corrispondono a una posizione di destra anziché di sinistra, ma tendono a essere coerenti con una posizione che Landier e Thesmar chiamano «individualistica». Lo stesso avviene per questioni che hanno a che fare con l’ottimizzazione (per esempio, la disponibilità a pagare di più per dei petti di pollo fair trade: meno marcata fra gli individualisti).
In parte, questo lavoro sembra quasi tautologico: Landier e Thesmar cercano di seguire il sociologo francese Émile Durkheim, recentemente tornato di moda grazie a Menti tribali di Jonathan Haidt (uno dei libri più importanti degli ultimi vent’anni). Per Durkheim, gli economisti hanno immaginato le società a divisione del lavoro avanzata come «una miriade di atomi giustapposti». L’individualismo diventa allora l’idea della monade «che è autosufficiente e potrebbe fare a meno del resto del mondo».
Per Landier e Thesmar, sono individualisti coloro che mettono il bene del singolo prima di quello del gruppo ovvero quelli che dimostrano scarsa compassione, lealtà alle istituzioni e all’autorità e non s’interessano granché dell’equità. Per una tradizione assai significativa, nella storia del pensiero, la marcia della modernità è proprio segnata dall’affrancamento dai vincoli comunitari e familiari e un mercato aperto sarebbe una specie di solvente che piano piano elimina le incrostazioni dei valori tradizionali.
Se fosse così, verrebbe da dire che per il ritorno a politiche più favorevoli alla concorrenza non c’è che sedersi sulla riva del fiume. Non è forse la società globale in cui ci troviamo a vivere attraversata da spinte alla atomizzazione, da richiami all’autenticità individuale, da pulsioni anti-comunitarie?
Forse le cose non sono tanto semplici. In alcuni loro lavori (per esempio The Economics of Freedom, Cambridge University Press), due economisti italiani, Sebastiano Bavetta e Pietro Navarra, hanno calato la loro interpretazione della libertà come autonomia («per essere autonoma, una persona deve disporre di diverse opzioni tra cui poter scegliere e dev’essere responsabile delle proprie scelte») all’interno di una discussione sul declino italiano. A partire da un’indagine sui dati del World Values Survey, Bavetta e Navarra hanno sottolineato come la transizione verso un’economia più libera debba accompagnarsi a una maggiore disponibilità, da parte delle persone, di accettare come equo il risultato della gara economica.
Un mercato più concorrenziale e aperto implica una vita con meno certezze, rispetto a quella garantita dalla distribuzione di favori e rendite da parte del decisore politico. I singoli possono accettare un po’ più di incertezza se, da una parte, comprendono che essa si accompagna a una maggiore possibilità di esercitare una certa sovranità sulla propria vita: di essere padroni del proprio destino. Dall’altra, devono anche pensare che questo destino sia anche in una certa misura determinato proprio dai loro sforzi e dalla loro determinazione. Nella misura in cui prevale l’idea che la gara sia truccata e che alla fine contino solo le posizioni di partenza o, peggio, l’incastro di amicizie e frequentazioni, i cittadini abbracceranno volentieri l’inefficienza economica: un gioco truccato, ma che se non altro dispensa certezze.
Sono questioni che negli ultimi anni la psicologia cognitiva e pure l’economia sperimentale hanno esplorato con passione. Interventismo e politica industriale sono ben accordati con bias cognitivi e atteggiamenti pre-politici. Il futuro della concorrenza dipende anche da se e come riusciremo a farci i conti.
da L’Economia – Corriere della Sera, 30 maggio 2022