8 Febbraio 2022
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
In Europa, in materia di concorrenza, la Commissione europea è pubblico ministero e giudice: istruisce il processo, giudica l’imputato, definisce la sanzione. Le imprese possono però appellarsi alla Corte di Giustizia che, ogni tanto, ribalta le decisioni prese della Commissione. È quello che è avvenuto con Intel. Il gigante dei microprocessori aveva fatto appello contro una sanzione comminata nel 2009 per 1,06 miliardi di euro, la più grande dopo quelle a Google nel 2007 e 2008.Quella multa ora è stata cancellata. Il ricorso di Intel era stato respinto nel 2014, in primo grado, dal Tribunale dell’Unione Europea. L’azienda si era però appellata alla Corte di Giustizia, la massima corte della Ue, che nel 2017 ha cassato la sentenza e rimandato il caso al Tribunale, per riesaminare la valutazione della commissione su un tema centrale nel caso.
Nel sanzionare Intel, la Commissione si era basata sull’idea che gli sconti fedeltà accordati da un’impresa in posizione dominante avessero, in qualche modo, di per sé, la capacità di restringere la concorrenza, impedendo ai competitor di impegnarsi sul medesimo mercato. Di per sé, gli sconti appartengono proprio al novero delle pratiche competitive. Quando due imprese si fanno concorrenza sul prezzo, lo fanno giustappunto a suon di sconti, per convincere i potenziali consumatori a scegliere l’offerta dell’una anziché dell’altra. Basti pensare a un mercato nel senso più vero del termine, un mercato di paese dove due banchi delle verdure o dei formaggi sono a pochi metri l’uno dall’altro. I venditori cercheranno di guadagnarsi l’attenzione dei passanti promettendo appunto prezzi ribassati e, a questo gioco, tenteranno di superare la concorrenza del vicino.
Dietro al procedimento contro Intel, stava l’idea che un’impresa in posizione dominante che vincoli in esclusiva a sé i rivenditori o utilizzi un sistema di premi subordinato al raggiungimento di obiettivi di vendita con riferimento a un periodo relativamente lungo abusi di tale posizione dominante. Ci sarebbe un che di ricattatorio in prassi di questo tipo. Il problema è in che maniera se ne accerta la natura. Sin da principio, alcuni osservatori hanno fatto notare che la Commissione faceva abbondante ricorso a prove sortite da indagini a tappeto presso le parti in causa, e in larga parte su scambi di e-mail, dimostrandosi invece scettica sulle testimonianze dirette e i colloqui con le aziende coinvolte. Come le intercettazioni telefoniche, anche le e-mail possono essere lette fuori contesto e male interpretate, sono scritte spesso in gergo colloquiale e abbondando di frasi che possono essere male interpretate.
Adesso il Tribunale ha sostenuto che l’analisi economica condotta dalla Commissione per dimostrare che il presunto comportamento di Intel ha effettivamente danneggiato la concorrenza fosse insufficiente, e dal momento che non si potevano identificare su nuove e più solide basi i danni causati dal comportamento di Intel, esso ha annullato completamente la parte della decisione della Commissione inerente la multa.
Più in generale, a lasciare perplessi era ed è quello che sembra essere un vizio ricorrente dei procedimenti Antitrust contro le imprese tecnologiche. Nel caso Intel, il mercato rilevante era quello delle Cpu (central processing units) dell’architettura x86: che, dai tempi dei primi 8086 e 8088, sono stati protagonisti di quella straordinaria cavalcata tecnologica che ci ha condotto ad avere un personal computer in ogni casa. Abbiamo a che fare con settori nei quali per anni e, nel caso dei microchip, per decenni, i prezzi sono andati scendendo mentre al contrario la performance è continuamente migliorata. Non è, in fondo, quello che ci aspetteremmo da un mercato ben funzionante? Un mercato ben funzionante appartiene comunque al mondo reale, che è il mondo del pressapoco, e non ha nulla di «perfetto». Proprio per questo è facile andare alla ricerca di imperfezioni, di errori e storture da raddrizzare con colpi ben assestati della «mano visibile». Il gioco vale la candela? Soprattutto, non è che quando le autorità ci provano stanno, che lo sappiano o meno, tarando le proprie iniziative sui desideri di aziende che, per diversi motivi, arrancano nella gara competitiva?
Negli Stati Uniti, l’influenza di alcuni studiosi di analisi economica del diritto aveva portato, a cominciare dalla fine degli anni Settanta, a pensare l’antitrust in vista del benessere del consumatore. Quest’ultimo diventava la bussola, evitando che l’attenzione si fissasse sull’idea dei regolamentatori di come dovrebbe essere e funzionare un certo mercato, rispetto a come esso effettivamente è e funziona. In Europa hanno spesso prevalso altri criteri, del resto non estranei alla storia della politica della concorrenza nel mondo anglosassone, come la tutela del concorrente più debole. Negli ultimi anni, soprattutto con la Commissaria Vestager, l’antitrust europeo ha guardato con particolare attenzione al digitale, come un far west a cui imporre una disciplina.
È troppo presto per dire se questa decisione del Tribunale dell’Ue porterà a raddrizzare il tiro. Certo è che arriva dopo undici anni. C’è da chiedersi se il diritto della concorrenza non dovrebbe prendere una forma diversa, se il conflitto d’interesse determinato dal fatto che la Commissione è pm e giudice al tempo stesso non andrebbe sciolto. Il problema non è che il giudice terzo confermi o riveda la decisione della Commissione. È che passa troppo tempo prima che il caso venga sottoposto a un giudice terzo.
da L’Economia – Corriere della Sera, 7 febbraio 2022