Consapevolezza europea per evitare che l’economia continui ad arrancare

Il dirigismo economico, attuato sin dall'Italia pre unitaria, genera divari sfavorevoli rispetto ai nostri competitori internazionali

17 Febbraio 2025

La Gazzetta del Mezzogiorno

Nicola Rosato

Argomenti / Teoria e scienze sociali

I segnali che l’economia italiana arrancasse c’erano già durante i mesi in cui l’occupazione cresceva mentre la produzione e il reddito nazionali, sostanzialmente, no. Ora vacilla. Ci siamo anche rallegrati del fatto che talvolta la nostra economia crescesse più di altre europee. Ma era un miraggio, svanito sotto l’incalzare del crollo della produzione industriale certificato dall’ISTAT. Erano gli altri a decrescere più rapidamente di quanto decrescessimo noi, che dall’Unità ad oggi, come spiega Nicola Rossi (Un miracolo non fa il santo, IBL libri 2024), abbiamo inseguito le principali economie occidentali senza mai agganciarle. Una costante in oltre centosessanta anni di storia con la sola parentesi del miracolo economico, appunto unico come tutti i miracoli, tra la seconda metà degli anni quaranta e la prima metà degli anni Sessanta del secolo scorso.

D’altronde noi ci facciamo abbagliare dalle parvenze, come quella di episodici scatti di sviluppo, e non prendiamo di petto le questioni vere, come le cause della nostra bassa produttività. Parvenza è la retorica del federalismo, che vogliamo col diritto delle autonomie territoriali di spendere senza il dovere di imporre le tasse, che lasciamo volentieri allo Stato. O nella versione della sottolineatura esasperata di specifiche diversità che possono sfociare in un modo di dividere i soldi per egoismi territoriali, invece che essere Stato che aiuta chi è rimasto indietro pretendendo l’innesco di politiche efficaci e di amministrazioni efficienti. Parvenza è la fiat tax nell’applicazione corrente, ben distante da quella che. guarda caso, sempre l’Istituto Bruno Leoni di Nicola Rossi ha elaborato (Venticinque % per tutti, IBL libri, 2017) salvaguardando il principio costituzionale della progressività fiscale.

Le cause delle nostre debolezze, nelle conclusioni di Rossi, non sono soltanto strutturali (per esempio, la resistenza sociale alla dotazione di nuove infrastrutture) e istituzionali (le limitazioni alla concorrenza), superare le quali è necessario ma non sufficiente, bensì sono culturali. E queste ultime chiamano in causa le politiche dirigistiche, la credenza che l’impresa italiana dovesse e debba forse ancora essere protetta in vece di essere lasciata libera di affrontare il mercato globale e gli effetti, che Schumpeter definiva distruzione creatrice, che ne possono derivare. Fu lasciata libera soltanto nell’immediato dopoguerra, grazie alle convergenze dei diversi liberalismi di De Gasperi e di Einaudi; convergenze che Antonio Polito (Il costruttore, Mondadori, 2024) ha definito «lezioni» per i politici di oggi. Prima di loro una visione autenticamente liberale l’aveva Cavour, ma non ebbe il tempo di consolidarla, perché il conte morì pochi mesi dopo la prima seduta del Parlamento italiano il 18 febbraio 1861.

Il dirigismo economico genera divari sfavorevoli nella ricerca e nell’innovazione tecnologica rispetto ai nostri competitori internazionali ed è il distillato o – meglio – il percolato del protezionismo praticato nei piccoli stati dell’Italia pre unitaria, radicatosi nel tempo fino ai nostri giorni. Lo riconosce Rodolfo Morandi, promotore della costituzione di SVIMEZ: «L’industria moderna, così anchilosata, non ha operato in misura apprezzabile, in quarant’anni di unità, come forza innovatrice dei rapporti sociali e come fattore di progresso per l’economia nazionale» (in Critica economica, 1955, n. 5). Più tardi sosterranno tesi analoghe lo storico Rosario Romeo, in Risorgimento e capitalismo (Universale Laterza, 1972) e Gianni De Michelis e Carlo Scognamiglio in Come guidare l’Italia nel duemila (Sperling & Kupfer Editori, 1989), che stroncano le politiche che largheggiano in incentivi finanziari coi quali «non c’è nessun interesse a che siano create cose realmente competitive» e auspicano politiche economiche che riconcilino gli imprenditori con la logica del rischio di impresa.

Le manifestazioni del dirigismo, aperto o strisciante, sono note. Non mancano, è ovvio, esempi virtuosi, qui ci riferiamo allo scenario di fondo. La limitata capacità brevettuale, la limitata innovazione tecnologica propria e l’applicazione di ciò che proviene da altre economie, i salvataggi che da eccezionali sono stati usati con eccezionale larghezza ed oggi potrebbero essere veicolati dall’inappropriato uso del golden power, la pubblica amministrazione invadente e spesso inefficiente, i bonus elargiti a man bassa invece di ridurre la pressione fiscale, le scuole che faticano ad adeguarsi alle nuove domande di formazione, previdenza e assistenza fuori controllo per essere state usate come ammortizzatori sociali oltre il ragionevole, servizio sanitario in affanno perché trascura il pilastro dell’efficienza operativa.

Di che cultura abbiamo dunque bisogno per superare una volta per sempre queste tare? Occorre dare spazio all’attitudine imprenditoriale, fatta di competenze ma soprattutto di creatività, di accettazione del rischio, di abbandono del vittimismo e dell’assistenzialismo che tuttora imperversano. Dobbiamo rivitalizzare le iniziative autonome dei corpi sociali. Ma una cultura nuova non si crea dall’oggi al domani. Si consideri la denatalità che ci sta travolgendo; può essere corretta nel lungo periodo e corre in parallelo alla denatalità imprenditoriale, perché una società che invecchia ha pochi stimoli ad innovare ed intraprendere.

Abbiamo bisogno di un ambiente politico e istituzionale nazionale consapevole di questi problemi ed abbiamo bisogno della partecipazione piena e proattiva dell’Italia in Europa per accelerare questo processo di rinascita. Lo stimolo esterno, che Guido Carli vedeva nel Trattato di Maastricht per portarci nell’Unione Europea, gioca ancora un ruolo fondamentale in un’Italia in cui è diventato di moda definirsi liberali senza idealità e prassi conseguenti. Ed è necessaria perché gli equilibri internazionali minacciati da più parti e la competizione delle economie continentali non lasciano alternative. Le analisi, le proposte da cui partire e il consenso per una vera stagione di riforme non mancano.

oggi, 22 Febbraio 2025, il debito pubblico italiano ammonta a il debito pubblico oggi
0
    0
    Il tuo carrello
    Il tuo carrello è vuotoTorna al negozio
    Istituto Bruno Leoni