7 Novembre 2022
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
Fino ad oggi, le classi politiche sono state sostanzialmente convinte che il quantitative easing delle banche centrali fosse il pasto gratis che non sarebbe dovuto esistere ma, finalmente, esisteva. Le banche centrali iscrivono al passivo del proprio bilancio la base monetaria (banconote e riserve bancarie) e all’attivo invece attività redditizie: come titoli di Stato e altri crediti. Con il quantitative easing esse hanno ampliato enormemente il proprio bilancio, comprando titoli di Stato e obbligazioni private. Nella prima fase tutto bene: gli utili delle banche centrali crescono a dismisura, e in diversi modi esse li riversano al Tesoro dello Stato. Quando i tassi d’interesse salgono, il valore di tali obbligazioni scende. Coloro che cedono obbligazioni alla Banca centrale ottengono l’equivalente sotto forma di depositi detenuti presso la banca. La Banca centrale paga un interesse su tali riserve al tasso corrente. Con bassi tassi d’interesse, il costo era più che coperto dalle entrate derivanti dai titoli di Stato acquistati. Ma oggi i tassi sono più elevati del reddito medio delle cedole. Le Banche centrali vanno incontro a perdite di bilancio.
Le mosse possibili
Come possono comportarsi? La prima opzione è che tutelino il proprio patrimonio, evitando di rialzare i tassi quanto sarebbe necessario. Così non accuserebbero perdite, i tassi rimarrebbero bassi, l’inflazione continuerebbe a galoppare. Non è escluso che sia esattamente ciò che molti banchieri centrali e molti politici desidererebbero: una fiammata inflazionistica che “diluisca” per bene il peso del debito pubblico. Ma è una posizione difficile da tenere, sia perché nessuna Banca centrale è un’isola e quello che fa la Fed influenza anche la Banca d’Inghilterra, la Bce eccetera, sia perché un’inflazione a due cifre crea una domanda politica di intervento per evitare continui aumenti dei prezzi. In alternativa, le Banche centrali possono operare in perdita, riducendo il proprio patrimonio e magari arrivando ad avere un patrimonio negativo. Questo non dovrebbe essere un problema, fintanto che le persone continuano a domandare ed utilizzare moneta. Per quanto sia improbabile, però, non è impossibile che smettano: che, cioè, l’andamento patrimoniale della Banca centrale abbia ripercussioni sulla credibilità della valuta che emette, spingendo le persone ad utilizzarne altre.
Non è un caso di scuola: in quei Paesi dell’America Latina in cui le finanze pubbliche traballanti obbligano i banchieri centrali a sostenere sempre e comunque l’indebitamento pubblico, le persone reagiscono con una “dollarizzazione” di fatto, cioè cercano di effettuare più scambi possibili in un’altra valuta la cui reputazione sia più salda. Le Banche centrali potrebbero provare a cavarsela con un po’ di finanza creativa: per esempio, non adeguando al valore di mercato il valore di libro dei bond che hanno in portafoglio. Da ultimo, le Banche centrali possono essere indennizzate dal Tesoro per le perdite che hanno accusato. È quello che potrebbe accadere in Inghilterra. Se così fosse, il governo di Liz Truss verrebbe ricordato per qualcos’altro oltre la durata fulminea: per aver svelato che nemmeno il quantitative easing è un pasto gratis.
L’ incidente di Londra
Il Tesoro inglese ha infatti disposto un trasferimento di circa 11 miliardi di sterline, dopo averne già trasferiti 828 milioni, alla Banca d’Inghilterra. C’entra anche il massiccio intervento cui la Banca d’Inghilterra è stata costretta dallo sfortunato mini-budget dell’ex premier Truss e dell’ex Cancelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng: l’annuncio di nuove, massicce spese a debito ha costretto la Banca ad intervenire aumentando i suoi acquisti di titoli di Stato. Il contribuente inglese pensava di aver già pagato cara una manovra spericolata: è cresciuto l’indebitamento ed è cresciuto anche il costo del servizio del debito. Ma adesso i conti si fanno più chiari, dal momento che le perdite in cui è incorsa la Banca centrale vengono “ribaltate” direttamente sul bilancio pubblico. La cosa è passata relativamente sotto silenzio: ne ha scritto Bloomberg, vi hanno dedicato dei tweet Martin Schmalz (professore di finanza a Oxford) e John Cochrane (economista oggi alla Hoover Institution di Stanford). La questione non è solo una partita di giro e nemmeno attiene temi eminentemente simbolici. Di fatto, riporta nell’alveo del bilancio pubblico i costi dei programmi di acquisti del QE: ciò li rende, in prima battuta, “visibili”, sia agli osservatori che a chi deve occuparsi della politica di bilancio. Questo significa pure però che il ricorso al QE diventa evidentemente un costo per il Tesoro e, indirettamente, per tutti i contribuenti. Esattamente come l’elevata spesa per interessi rappresenta un vincolo rispetto al complesso delle uscite dello Stato (quel che spendo per il servizio del debito non posso spenderlo per nuove infrastrutture, pensioni o asili nido).
Negli scorsi anni, le Banche centrali sono state usate per nascondere sotto il tappeto la polvere di una finanza pubblica spericolata. Hanno operato, su ben altra scala e con strumenti di assai maggiore sofisticazione, come faceva la Banca d’Italia quando era considerato “un atto sedizioso” che essa non sostenesse il disavanzo dello Stato italiano. Gli inglesi hanno messo nero su bianco che ciò non può andare avanti per sempre, con un’operazione che, se ratificata dal Parlamento (c’è bisogno di una legge, che ancora non c’è), cambia completamente la percezione del QE e avrà ripercussioni al di fuori delle isole britanniche. Nessun pasto è gratis: a Londra ma nemmeno a Francoforte, Roma o Parigi.
da L’Economia del Corriere della Sera, 7 novembre 2022