21 Febbraio 2014
IL – Intelligence in Lifestyle
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Siamo al settimo anno di crisi economica, ed è difficile che il futuro ci appaia roseo. Eppure la nostra resta la società più ricca che la storia ricordi. Lo si capisce quando si discute di cibo. La pressante necessità di mettere assieme il pranzo con la cena è, per i più, fortunatamente un ricordo. Al contrario c’è una ricercatezza diffusa, un piacere di vivere la mensa per quel che può essere: un evento culturale, al pari di un romanzo o di una sera a teatro. Ci circonda un’abbondanza di cibo come mai prima nella storia.
È normale che, proprio in virtù di questa abbondanza, si stia facendo largo un gusto nuovo nell’esercitare la propria libertà di scelta. Ed è inevitabile che s’impongano nuove mode culturali. Come il “chilometro zero” che, intelligentemente, in un Paese che vanta una cultura alimentare delle più solide, viene incontro al bisogno di valorizzarla. Dal momento che seguirla significa essere pronti a scucire fior di quattrini per l’illusione di mangiare come facevano i nostri nonni, che invece erano poverissimi, il “chilometro zero”, come moda, è ingordo di giustificazioni. Non basta il brivido dí scoprirsi un Indiana Jones versione gastronomo, determinato a riscattare sapori che rischiano di andare perduti: piacere di per sé non trascurabile. Il vezzo culturale può mutare in atteggiamento politico. E questo tanto più facilmente quanto più un comportamento individuale piacevole porta con sé ricadute positive sul piano collettivo. Piccoli vizi privati e grandi virtù pubbliche: accordare preferenza al prodotto locale sembrerebbe unire gli uni e le altre. Il “chilometro zero”, ci viene detto, fa bene all’ambiente, riduce i rischi per la salute legati all’alimentazione, e restituisce varietà e pluralismo a una dieta che rischia pericolosamente di globalizzarsi. È proprio così, o anche questa medaglia ha il suo rovescio?
L’ambiente
Capitando sul sito internet opportuno, chiunque può facilmente calcolare la propria “impronta carbonica”, ovvero l’ammontare dell’emissione di CO2 attribuibile ai suoi comportamenti. A maggior ragione, preoccupa l’impronta che lasciano i prodotti: che è il costo del loro trasporto, misurato in emissioni di anidride carbonica. I “mercati dei contadini” (farmers’ market), che si vanno diffondendo anche in Italia, avrebbero il pregio di abbassare l’impronta carbonica. Girare per queste bancarelle, per inciso, è una piacevolissima esperienza: il produttore e il conservatore possono stringersi la mano. Davvero i farmers’ market riusciranno non solo ad aumentare i ricavi per il primo, che evita di pagare pedaggio al distributore, ma anche a ridurre i costi per il secondo?
Così dovrebbe essere, perlomeno secondo Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, che nei suoi libri raccomanda di «tornare al cibo locale, quindi agricoltura vicino a casa», «tornare al valore della stagionalità, i prodotti di stagione costano di meno». È chiaro quale sia il sottinteso: a costare è la distanza, il trasporto, l’arrivo di cose diverse e nuove e pertanto peggiori di quelle che siamo abituati a mangiare. È un’aritmetica semplice: se viene da lontano, i costi di trasporto si sommano al prezzo del prodotto, ergo il consumatore pagherà di più. Vi sarebbe quindi un costo implicito, imputato all’ambiente, ma anche uno palese. Solo che le condizioni di produzione non sono, uniformemente, uguali ovunque nel mondo. Cambiano i salari dei lavoratori, è indubbio, ma anche il clima, la fertilità del terreno, il prezzo relativo dei fattori di produzione. C’è un costo-opportunità, per l’utilizzo di qualsiasi risorsa: molto banalmente, il costo opportunità (gli usi alternativi cui rinuncio) per l’utilizzo del suolo è diverso in un’area che produce vini pregiati e in una zona industriale.
Non è detto che ciò che è prodotto vicino costi di meno: curiosamente, appena è stato possibile la gente sì è resa via via meno dipendente dal negozio sotto casa. Se ciò che è locale fosse di per sé a buon mercato, del resto, non ci sarebbe bisogno di alcuna corsia preferenziale. Nel caso il negozio sotto casa costasse sempre di meno degli altri, perché è sotto casa, la gente ci andrebbe da sola, senza bisogno d’esser convinta. La grande distribuzione lavora sulle economie di scala, forte di processi di “industrializzazione” del settore alimentare che ne hanno fatto lievitare la produttività. Le maglie della competizione si allargano: essa non avviene più soltanto fra prodotti simili di una stessa regione, ma fra territori diversi. Un’offerta più ampia non significa prodotti più scadenti. Finché ogni vino era consumato solo nei paraggi del luogo di produzione, la qualità tendeva a essere (con l’eccezione di poche terre d’elezione) genuinamente pessima. In molti territori, i vitigni locali andavano scomparendo. Tutt’oggi, ad alcuni di essi resta appiccicata la maledizione di essere stati sfruttati, per troppo tempo, per produrre vino che, godendo di un piccolo o grande monopolio locale, di norma era appena bevibile. Il fatto di avere a che fare con bacini di domanda più vasti ha cambiato il vino, ha indotto i vigneron a investire in ricerca e innovazione, le aziende a differenziarsi per presidiare al meglio la propria nicchia di mercato.
Questo ha paradossalmente portato a riscoprire vitigni “autoctoni” misconosciuti, o per anni male utilizzati. La tutela del prodotto locale in quanto prodotto locale non significa necessariamente rispetto per l’ambiente. Oggi produrre utilizzando tecniche sagge sul piano ambientale è un vantaggio competitivo, sostanzialmente perché il pubblico le apprezza: in un’economia di mercato, nulla è più potente dei gusti dei consumatori. Ma se la gara dei prezzi avesse un esito già scritto, sempre e comunque a favore dei locali, l’incentivo a differenziarsi anche dimostrandosi più “verdi” degli altri sarebbe ridotto. Che il “chilometro zero” somigli al caro vecchio protezionismo, i politici l’hanno già intuito. La Lega Nord, ma non solo, chiede «appalti a chilometro zero», per privilegiare le imprese locali. Indipendentemente dall’esito delle gare. Che è come dire: indipendentemente dai prezzi e dalla qualità.
La salute
È vero: l’obesità dilaga. Ma è un argomento sufficiente, per provare che a tavola si stava meglio quando si stava peggio? Una studiosa del Saxo Institute dell’Università di Copenhagen, Tenna Jensen, ha confrontato la dieta dei danesi di oggi con quella di cinquanta e cent’anni fa. Con l’aumento del benessere, sono aumentati i consumi. Eppure, in generale, la dieta è molto più sana di quanto non fosse in passato: in media, si mangiano più proteine e meno carboidrati. Si dirà che la Danimarca è la Danimarca, una piccola isola felice, mentre nel resto dell’Occidente spadroneggia la “piaga” del fast food. Una ricerca sulle abitudini alimentari delle donne americane, comparate con quelle del 1953, conferma che oggi consumano indubbiamente più calorie: una media di 2.178 al giorno contro 1.818. I problemi di obesità e di sovralimentazione, però, non sembrano dipendere da questo: nel 1953 le donne americane ingerivano il doppio degli oli e il doppio delle uova che mangiano oggi. Assumevano molti più zuccheri, e avevano una dieta assai meno varia. Una vita più sedentaria e meno attività fisica contribuiscono a spiegare l’aumento dell’obesità più dell’alimentazione.
È opinabile, del resto, che i nostri bisnonni mangiassero granché meglio di noi. Sappiamo che le abitudini alimentari degli italiani, dopo l’Unità, erano segnate da una dieta monotona: il pane era il cibo principale, si cucinavano zuppe, minestre, “erbaggi” per non sentire la fame, l’assunzione di calorie era insufficiente rispetto al fabbisogno e la varietà nell’alimentazione era un lusso per pochissimi. La malnutrizione era diffusa, e così problemi della crescita, anemie, rachitismo, mortalità infantile. Gli italiani consumavano una media di 16 chilogrammi di carne pro capite all’anno (oggi sono 92), e assumevano circa 1.5o0 calorie quotidiane di media (oggi circa 2.000). Lontano dalla costa il pesce fresco non era disponibile, il pane bianco era un privilegio dei ricchi e così la carne rossa, si beveva molto ma male. La pellagra era dovuta all’esagerata intensità nel consumo di mais, con la polenta che era pane e companatico di intere regioni.
Da questo stato di cose, ci hanno emancipato la crescita e lo scambio. Nel 1861, due terzi del reddito medio italiano era destinato al cibo; agli inizi del Novecento il 46 per cento; negli anni Settanta il 30 per cento e oggi non più del 15. «Tornare ai prodotti di stagione, i prodotti di stagione costano meno»: ma storicamente è proprio a mano a mano che si spezza la dipendenza dai prodotti di stagione che il peso dei consumi alimentari sul reddito si riduce. Che gran rivoluzione che è stata, il frigorifero. Per generazioni l’uomo è rimasto appeso all’andamento delle stagioni, era madre natura a dettare il menu. Oggi la nostra capacità di conservare i cibi è incomparabilmente più sviluppata che solo pochi decenni fa, possiamo nutrirci anche con preparazioni già pronte. Questa rivoluzione domestica ha avuto effetti dirompenti, soprattutto per le donne. Si può dire, parafrasando Karl Popper, che freezer e forno a microonde hanno fatto di più per l’occupazione femminile di qualsiasi legge o incentivo. Ma l’innovazione tecnologica non sarebbe bastata. L’elemento cruciale della grande rivoluzione alimentare che abbiamo vissuto è l’abbassamento dei costi delle transazioni. L’ecovillagio di Vicofertile, a Parma, ha spiegato il suo ideatore Giovanni Leoni, sarà un luogo dove «la spesa a chilometro zero consentirà ai residenti di dedicare più tempo ai figli»: vero, ma solo se si accontenteranno, tutti i santi giorni, di quel che passa il convento. Nell’ultimo secolo si sono drammaticamente ridotti i costi dei trasporti, e proprio questo fatto ci ha liberati definitivamente, dal giogo del tempo atmosferico. A “chilometro zero” basta una gelata per distruggere un raccolto, costringendo così le persone a cambiamenti repentini e imprevisti nelle loro abitudini. Oggi siamo ragionevolmente sicuri che ciò che mangiamo non è alla mercé dei fattori climatici. La competizione con derrate di altri Paesi incentiva anche il miglioramento delle tecniche produttive.
Questo processo competitivo trova un regolatore importantissimo nella grande distribuzione. Il supermercato è un’istituzione fondamentale della società moderna. Ha riunito in un singolo punto d’acquisto merci e prodotti i più diversi. Ila caricato l’orologio delle persone, consentendo loro di risparmiare tempo e di confrontare un più ampio ventaglio di prodotti. Così facendo, ha abbassato il livello dei prezzi e introdotto gusti nuovi anche nella dieta di chi ha un reddito basso. Ciò sarebbe impossibile senza il forte potere negoziale che alla grande distribuzione deriva, per l’appunto,
dall’essere grande. E se grande non fosse, se pertanto dalla qualità degli alimenti presenti ín ogni punto vendita, dal rispetto degli standard di sicurezza in città e regioni diverse, non dipendesse la reputazione complessiva di una catena e il valore del suo marchio, la nostra spesa sarebbe senz’altro meno sicura.
L’insalata del contadino sarà sicuramente la più buona: ma bisogna conoscerlo, il singolo contadino, essersi informati sulla cura che mette nelle sue coltivazioni, per imparare a fidarsene. Il grande marchio della catena di supermercati svolge la stessa funzione, con meno dispendio di tempo: ci promette una garanzia di sicurezza. Se la promessa è rotta, la sanzione di mercato ha effetti nucleari.
La varietà
Come abitudine individuale, la devozione al “chilometro zero” è il piacere di capire il cibo. Come strategia di marketing, è l’assalto a una nicchia di mercato: quelli che David Brooks chiama i “bobos”, i borghesi bohémien, portafoglio gonfio, gusti raffinati, passioni alternative. Siamo una società ricca, nella quale i formatori della pubblica opinione sono fondamentalmente orientati a sinistra: i “bobos” sono tanti, e rappresentano un ricco mercato. L’ha capito negli Stati Uniti John Mackey, il fondatore di Whole Foods, e l’ha capito da noi Oscar Farinetti. Entrare nel nuovo, spettacoloso punto vendita di Eataly, alla stazione Ostiense di Roma, è fare un tuffo in un avveniristico passato. Messi a confronto coi prodotti in parata sugli scaffali lindi dei negozi di Farinetti, siamo costretti a ricordare marchi e sapori dell’infanzia. Quasi all’ingresso, il “chilometro zero” troneggia: si parla di prodotti caseari, latte e yogurt rispetto ai quali, effettivamente, pare aver senso minimizzare costi e tempi di trasporto. Ma nella stessa cella frigorifera, lo yogurt reca già impresso nel nome la provenienza altoatesina. Fra Roma e Merano, di chilometri ce ne sono settecento. Eataly e Whole Foods, del resto, possono blandire gli affezionati del “chilometro zero”, li corteggiano, ma incarnano l’esatto contrario. Secondo i più, per ragioni d’impronta carbonica bisognerebbe boicottare la Coca-Cola e riscoprire il vino del contadino. Peccato che la Coca-Cola non viene caricata quotidianamente su grandi cargo che partono da Atlanta. Nel nostro Paese, ha sei stabilimenti produttivi, due al Nord e quattro al Sud, nei quali la cola viene prodotta secondo la celebre ricetta segreta e poi imbottigliata. La domanda nazionale, dunque, è soddisfatta dalla produzione nazionale. Ma che dire invece dell’impronta carbonica di un cartone con sei bottiglie di Sassicaia, comprato da Eataly in Fifth Avenue? Questi meravigliosi supermercati (perché altro non sono) fanno quello che i supermercati fanno da che esistono. Avvicinare consumatori e produttori indipendentemente dalle distanze geografiche. In essi, si compiono scambi che non avverrebbero se il “chilometro zero” diventasse una politica, e cioè un groviglio di prescrizioni e divieti. Un mondo a chilometro zero è un mondo nel quale la varietà dell’offerta è minore, non maggiore. L’idea sottesa è che tutto il processo di “industrializzazione” dell’alimentare sia stato se non proprio una truffa, quasi. La produzione di massa non ha meriti: ci ha derubato del senso delle cose genuine, dei sapori, dei legami sociali che s’intrecciavano acquistando una melanzana o un pezzo di formaggio. Comprare asparagi peruviani a marzo è contro natura, spezza l’armonia delle stagioni, è un’affermazione egoista della nostra libertà. E lo stesso può essere detto e ripetuto, andando a ritroso, per qualsiasi momento della produzione.
«A terre italiane concimi e macchine italiane», ammoniva un manifesto fascista negli anni dell’autarchia. Il cibo è cultura, ma la cultura è confronto, curiosità, viaggio, voglia e possibilità di sperimentare. È paradossale che si ragioni come se il BigMac e il pecorino di fossa abitassero su pianeti differenti. Ricorda la mentalità polverosa di quei professori di liceo che sono riusciti a farci odiare la letteratura col loro incessante pontificare contro i romanzi d’evasione. C’è un tempo per tutto, nella vita, e se capita che uno desideri mangiare un hamburger, non significa che non possa apprezzare un bicchiere di Barbaresco. Così come non è che chi ama romanzi gialli non possa capire Manzoni. Il libero esercizio della curiosità insegna come dosare gli uni e gli altri, e la dose giusta è sempre e soltanto quella che un individuo decide per sé. Noi mangiamo meglio di cent’anni fa, c’interessiamo di più di quel che mangiamo, il costo dei consumi alimentari in rapporto al nostro reddito è inferiore, giustamente pretendiamo di mangiare indiano a Milano e italiano a Londra. Questa intensificazione degli scambi ci ha resi più ricchi, più consapevoli, e probabilmente anche un poco più tolleranti.
Da IL, 21 febbraio 2014
Twitter: @AMingardi