10 Ottobre 2017
Il Foglio
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Un fantasma si aggirava, ieri, per le strade di New York: era il fantasma di Cristoforo Colombo. Il Columbus Day – festa nazionale dal 1937, dopo che per decenni era germinato spontaneamente – è stato quest’anno un evento divisivo, perché si trascinava tutti gli strascichi della “guerra delle statue” dell’estate scorsa. Anche il navigatore genovese ne fu investito: oltre alle numerose statue vandalizzate (tra cui quella della Grande Mela), diversi sindaci hanno messo in discussione l’opportunità di continuare a celebrare il Columbus Day. Perfino Bill De Blasio, il primo cittadino di New York, ha ipotizzato di dare lo sfratto al monumento che dal 1892 torreggia nei pressi di Central Park. Un sondaggio online condotto dal blog del New York Times, The Upshot, ha trovato un 30 per cento di rispondenti favorevoli alla rimozione.
Che ha fatto di male Colombo, per meritarsi tanto odio? I critici gli attribuiscono il peccato originale delle Americhe: fu lui a spianare la strada ai conquistatori europei, fu lui il primo a portare oltreoceano germi contro cui gli indigeni non avevano difese immunitarie, fu lui a inaugurare quella sinistra autostrada del mare che sarebbe stata per secoli percorsa dalle navi negriere. In più, quando il 3 agosto 1492 toccò la sponda dell’odierna San Salvador, neppure si accorse di aver scoperto un nuovo continente, convinto com’era di aver raggiunto le Indie (ragion per cui ancora oggi chiamiamo i nativi “indiani”). Tracciare un bilancio delle conseguenze di quel primo viaggio è peggio che impossibile: è inutile. Non possiamo dire come sarebbero andate le cose se Colombo fosse semplicemente naufragato. Una cosa, però, è certa: rispetto al 12 ottobre 1492, c’è un “prima” e c’è un “dopo”. Lo spartiacque non riguarda solo le praterie di crescita e sviluppo, ma anche di violenza e disumanità, che si sono spalancate davanti agli europei. C’è in ballo qualcosa di infinitamente più vasto, perché ha una dimensione intellettuale e culturale, prima e più che fisica.
Per capirlo, e prima di esprimere un’opinione sulla faccenda delle statue, bisogna leggere lo straordinario lavoro di David Wootton, lo storico dell’Università di York autore di The Invention of Science (tradotto in italiano per i tipi del Saggiatore col titolo La scintilla della creazione, pp.872, euro 42). Wooton rinviene proprio nella navigazione di Colombo l’origine della rivoluzione scientifica che ha partorito la modernità. La scoperta dell’America fu un evento traumatico perché non si trattava semplicemente di un nuovo lembo di terra da esplorare: anche l’Africa e l’Asia erano territori largamente sconosciuti. Ma l’Africa e l’Asia c’erano sempre state: le Americhe invece non dovevano esserci, perché la loro esistenza contraddiceva ogni nozione geografica precedente e metteva in discussione l’idea stessa che gli uomini avevano del pianeta Terra.
Il confine tra i viaggi di esplorazione (prima) e quelli di scoperta (dopo) può apparire ai nostri occhi del tutto marginale, ma per quelli di un uomo del Quattro-Cinquecento era del tutto nuovo e intellettualmente sconvolgente. L’approccio allo studio e alla comprensione della realtà fisica – i fenomeni naturali, la geografia, la biologia, l’astronomia – mutò senza preavviso ma senza sosta. La scoperta dell’America cambiò il mondo non nel senso che ne dilatò i confini, ma nel senso che mutò lo statuto sociale della scienza, al punto che, prima, parole come “scienziato” e “scoperta” o non esistevano, o avevano un significato molto più limitato di quello che a noi appare ovvio. Dice Wootton: “la scoperta non è di per sé un’idea scientifica, quanto piuttosto un’idea fondamentale per la scienza”. Tale concetto avrebbe potuto esplodere in altri luoghi o in altre epoche, ma è un fatto storico che il seme piantato da Colombo attecchì nell’Europa del Cinquecento, che “si dimostrò capace di abbandonare le vecchie teorie e adottare le nuove, di rigettare l’idea di un sapere fondamentalmente completo e di abbracciare quella di sapere come progresso continuo”, e ciò perché “la cultura europea dava ampio spazio alla competizione e alla diversità”.
Prima di allora, la scienza non era concepita come una forma di progresso, ma consisteva nel ritrovare o dedurre delle verità che si ritenevano già note agli antichi, e che erano state dimenticate. Colombo costrinse i suoi contemporanei a elaborare l’idea stessa di “scoperta”. La scienza e la tecnologia moderna nascono proprio dall’assunto che vi siano ancora cose da scoprire; e dal conseguente tentativo di farlo. Il processo non fu né rapido né facile, ma cambiò tutte le coordinate culturali dell’epoca. Non era più possibile pensare che tutto fosse nascosto nelle pagine della Bibbia o di Aristotele, né piegare ogni evidenza in modo da renderla coerente con le immutabili verità enunciate dai filosofi. Senza saperlo o volerlo, Colombo mutò la stessa gerarchia del sapere: innescò la parabola discendente dei teologi, ed elevò i matematici sullo scranno più alto.
Questo orizzonte tanto vasto ci riporta al significato del pezzo di marmo scolpito da Gaetano Russo e posto centoventicinque anni fa in quello che oggi è Columbus Circle a New York. La rilevanza storica di Colombo non dipende da quello che era né da quello che intendeva fare, e neppure dalle tragedie che a torto o a ragione gli vengono attribuite: deriva dall’enormità della trasformazione che mise in moto, come Scrat, lo scoiattolo dell’“Era glaciale” che, nel tentativo di nascondere la sua ghianda, innesca la deriva dei continenti.
Celebrare il Columbus Day significa riconoscere che la modernità si fonda sul rifiuto dell’uniformità culturale e sul valore sociale della diversità. Mai come adesso, in un momento in cui il vento passatista soffia fortissimo tra di noi, è stato importante perdonare a Cristoforo Colombo i suoi peccati terreni, e dargli atto che la nostra cultura è figlia della scoperta sua.
Da Il Foglio, 10 ottobre 2017