Difficilmente la Cop27 passerà alla storia. Significa che è un fallimento? Non necessariamente. Nel momento in cui questo articolo viene scritto i delegati non hanno ancora trovato un accordo sulla dichiarazione conclusiva. Le bozze circolate nei giorni scorsi hanno indotto le maggiori organizzazioni ambientaliste a denunciare l’ “inazionismo” dei governi, in particolare quelli occidentali. Sono due, soprattutto, i temi su cui gli sherpa faticano: la costituzione di un fondo per compensare i paesi maggiormente colpiti dal cambiamento climatico e la condanna definitiva dei combustibili fossili.
Sono questioni attorno a cui si sono avvitati tutti gli ultimi vertici, incluso quello di Glasgow del 2021. La prima riguarda principalmente gli effetti e le responsabilità del cambiamento climatico. Un recente lavoro di Pietro Andreoni e Massimo Tavoni ha stimato l’impatto economico del riscaldamento globale in 700 miliardi di dollari entro il 2025 e 1.800 entro il 2030, soprattutto in Africa e nel Sud e Sudest asiatico. “Quasi due terzi degli effetti economici si riscontrano nei paesi a reddito medio-basso – spiegano su lavoce.info – che tuttavia sono responsabili del 10 per cento delle emissioni cumulative. La proporzione è invertita per i paesi ad alto reddito”. E’ dunque necessario compensare i perdenti del clima con adeguati trasferimenti finanziari, che i due economisti stimano in circa 380 miliardi di euro (di cui 317 dai paesi ad alto reddito). Si tratta di una cifra decisamente superiore ai 100 miliardi su cui finora ci si è impegnati, e ancora maggiore rispetto a quanto effettivamente stanziato.
L’altro aspetto ha una dimensione non solo materiale ma anche ideologica. Sulla scorta della dichiarazione di Glasgow, la bozza di Sharm el Sheik invita le parti a “phase down” l’impiego del carbone “in assenza di tecnologie di abbattimento delle emissioni” e a “phase out and rationalize” i sussidi alle fonti fossili. Non chiede però di “phase out”, cioè eliminarne completamente, l’utilizzo. Sebbene la combustione di carbone, petrolio e gas sia all’origine delle emissioni climalteranti, il loro completo abbandono è irrealistico in qualunque scenario concreto. Vi sono, infatti, numerosi utilizzi finali in cui tali fonti sono difficili o impossibili da sostituire. Si capisce, dunque, la resistenza nei confronti di quella che sembra una mera enunciazione di principio. Anche perché il progresso tecnico ci può mettere a disposizione – e in parte l’ha già fatto – gli strumenti per catturare le emissioni e, dunque, consentire un impiego sostenibile di questi prodotti.
Nel valutare gli esiti della Cop27 bisogna tenere conto anche del contesto in cui si svolge. Già l’anno scorso si era assistito a una divergenza tra ciò che i leader dicevano a Glasgow e quello che invece proclamavano non appena rientrati in patria. Il caso forse più clamoroso è quello dei sussidi ambientalmente dannosi: ai microfoni della Cop tutti si impegnavano a eliminarli, salvo poi firmare contestualmente norme con cui disponevano costosissime misure volte a contenere gli aumenti dei prezzi energetici in atto. Cioè, a tutti gli effetti, a distribuire sussidi ambientalmente dannosi. Quest’anno la situazione è ancora più estrema, vista l’estensione e la profondità della crisi energetica, soprattutto (ma non solo) in Europa. E’ dunque fisiologico che le priorità di brevissimo termine rendano i capi di governo meno gagliardi.
C’è un ultimo aspetto. E’ comprensibile la ricerca, ogni volta, di un climax: ma non tutte le Cop possono segnare “la svolta”. Quando lo fanno, è normalmente perché negli anni precedenti c’è stato un lavoro sotterraneo e paziente. Tutti ricordano il fallimento di Copenhagen (2009) e il successo di Parigi (2015), grazie al quale abbiamo impostato un nuovo e più efficace approccio negoziale. Ben pochi, però, ricordano i progressi di Cancun, Durban, Doha, Varsavia e Lima che hanno condotto dall’uno all’altro. Le trattative sul clima non finiscono oggi in Egitto: continuano, l’anno prossimo, a Dubai.
da Il Foglio, 19 novembre 2022