Di qui gli sprechi continui, le politiche dissennate, la logica clientelare elevata a vademecum quotidiano. E poi, lo Stato non può fallire, mentre il privato sì. E infine, il privato misura la propria efficienza sulla base del profitto o della profittabilità di un investimento, mentre la classe politica misura il proprio successo sulla base dei voti raccolti alle elezioni.
Ma riavvolgiamo il nastro. Ci dev’essere una ragione se nonostante un prelievo fiscale da predatori, e con una progressività più veloce dell’ex romanista Salah, il divario tra ricchi e poveri tende ad allungarsi con buona pace del tanto magnificato ceto medio. La ragione può essere questa: il sistema fiscale italiano mortifica lavoro e operosità a beneficio di rendite e parassitismi vari. Logico che i più furbi si arricchiscano e i più laboriosi si proletarizzino. Se l’intero modello fiscale è congegnato per scoraggiare, attraverso aliquote vessatorie, chi ha voglia di lavorare di più per sé e per gli altri, non meravigliamoci se la produttività ristagna e se i giovani più bravi e intraprendenti scelgono la via dell’espatrio. Né dobbiamo sorprenderci se la mobilità sociale si è fermata, fatta eccezione per i più fortunati che proliferano e prosperano sotto la tovaglia della classe politica, depositaria di regalie e alimenti vari, di concessioni tariffarie e di prebende semi monopolistiche. Né dobbiamo scandalizzarci se la produttività complessiva dell’economia italiana ristagna da parecchi lustri. Se lavorare e produrre di più significa arricchire esclusivamente la macchina statale, perché ogni sforzo suppletivo avvantaggia solo lo Stato tassatore, tanto vale frenare gli ardori personali. Nessuno è disposto a impegnarsi nel lavoro solo per gli altri, cioè per lo Stato.
Per smuovere la palude di cui sopra servirebbe una scossa, uno choc, un sasso da lanciare nell’acqua per vedere l’effetto che fa. Questo sasso potrebbe essere rappresentato da un ribaltone, da cima a fondo, della politica fiscale made in Italy.
Il professor Nicola Rossi, dell’Istituto Bruno Leoni, pochi giorni fa, ha lanciato l’idea di una flat tax al 25 per cento. La flat tax, tassa piatta, indica un sistema fiscale non progressivo in cui si applica una sola aliquota indipendentemente dal livello di reddito dei singoli. Ovviamente, l’economista pugliese ipotizza una specie di reddito minimo per chi si ritrova in condizioni particolarmente svantaggiate.
Le prime reazioni di esperti e addetti ai lavori fanno intendere di condividere l’esigenza di semplificare il nostro sistema fiscale, più barocco di un palazzo nobiliare salentino. Ma gli osservatori più dubbiosi hanno manifestato un paio di timori: il rischio che i ricchi diventino ancora più ricchi e i poveri più poveri; e il pericolo che s’appesantisca il fardello del debito pubblico, specie nell’anno di esordio dell’eventuale flat tax.
Può anche darsi che i ricchi diventino ancora più ricchi, ma non è detto che i poveri diventino ancora più poveri. L’economia non è un gioco a somma zero. Se crescono produzione e produttività, i vantaggi toccheranno larghe fasce della popolazione, con relativa spinta a quell’ascensore sociale fermo da tempo negli scantinati. Può anche darsi, anzi è certo, che i primi beneficiari della ripresa economica siano proprio coloro che vivono in affanno senza un reddito degno di questo nome. Può anche darsi che il primo impatto di un’ipotetica flat tax possa provocare un’altra impennata del debito pubblico. Anzi, è certo che, agli inizi, andrà così. Ma non è detto che a lungo andare la ripresa produttiva non possa irrobustire le entrate fiscali dello Stato. Anzi, è proprio questa la vera scommessa. Se l’economia riprenderà a correre, l’aumento immediato del debito pubblico potrà essere assorbito in breve tempo, ferma restando l’esigenza di contenere la spesa pubblica improduttiva. Altrimenti ci ritroveremmo punto e a capo.
La proposta di Rossi, inoltre, non annulla la gratuità del servizio sanitario per la gran parte dei cittadini, anzi ne attribuisce il costo ai contribuenti più cospicui, garantendo loro anche il diritto di rivolgersi al mercato.
Non sappiamo se l’idea di Rossi possa fare strada, anche se dalla sua ha un preambolo di indubbia fondatezza: il disincentivo ad evadere le tasse, costituito dalla semplificazione fiscale e dalla riduzione dell’aliquota.
Ma, in un Paese intriso di ideologismo, è difficile che il pacchetto di Rossi possa incontrare il favore dell’accademia e il plauso delle forze politiche, anche se alcuni partiti si dichiarano espressamente favorevoli alla flat tax. Il progetto di Rossi è più ragionevole e più equo di quello presentato da altri soggetti. Ad esempio trasforma l’Irpef in un’imposta su base familiare, con una deduzione di base pari a 7mila euro annui nel caso di famiglie composte da un solo adulto. Ma forse ciò non basterà a fugare dubbi e incertezze, paure e pregiudizi.
Per finire. La riforma fiscale, in Italia, è (quasi) più invocata di quella elettorale. Rossi ha avuto il merito di indicare nero su bianco una via d’uscita. Anche perché bisogna pure iniziare a ragionare su come semplificare l’infernale labirinto delle tasse made in Italy.
Da La Gazzetta del Mezzogiorno, 2 luglio 2017