Cosa c'è davvero dietro la retorica al quadrato dei benecomunisti

I punti (volutamente) oscuri di una teoria à la page

9 Luglio 2015

Il Foglio

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Il peso delle parole cambia anche solo da un singolare a un plurale. Prendete l’espressione “bene comune”. Al singolare, è un concetto classico che il diritto ha acquisito dalla filosofia tomistica quale fine della comunità politica. In termini moderni e secolarizzati, potremmo chiamarlo interesse generale, e come tale esso ricorre ovunque nel nostro ordinamento, dalla Costituzione alle leggi alle sentenze. Al plurale, possiamo invece dire che i beni comuni sono ancora un’espressione ignota all’ordinamento vigente, ma molto in voga nel linguaggio politico, con la quale si indicano beni a cui tutti dobbiamo avere accesso e che rischiano di esaurirsi o deteriorarsi con l’uso.
Il passaggio dal singolare al plurale non è indenne: equivale a una precisa scelta non di quali siano i beni comuni poiché nessuna teoria ancora ne offre un elenco definito, ma di quali siano gli effetti sul bene comune al singolare dell’accoglimento del concetto di beni comuni al plurale. Quella dei beni comuni è un’ideologia di forte presa, di questi tempi. Dal referendum sull’acqua di qualche anno fa al festival di Torino, dall’assessorato napoletano alla proposta di legge Rodotà per i beni comuni, è tutto un trionfo di buone intenzioni sulla gestione comunitaria e democratica di beni essenziali come l’acqua, il cibo, il suolo, l’aria, la conoscenza, l’ambiente, internet, e altro ancora. Per quanto affascinante nella evocazione di termini democratico-partecipativi, la teoria dei beni comuni è debole sia in ciò che descrive sia in quello che chiede.
Quali siano i beni comuni, nemmeno i loro teorizzatori lo sanno. A volte, li si confonde con le cose strumentali all’esercizio dei diritti fondamentali. Ma se cibo e acqua sono necessari al sostentamento, anche il libro è necessario alla libertà di informazione e espressione, o la medicina al diritto alle cure. Eppure nessuno di questi due beni è contemplato nelle multiformi teorie benecomuniste. Talaltra, allora, essi si sovrappongono più ristrettamente ai beni indisponibili, quelli cioè che, per quanto fittiziamente pubblici, già oggi si può dire che non siano di nessuno. Ancora, sono ritenuti, secondo una prospettiva più economica, come beni ad accesso aperto e uso rivale, ma anche con questa definizione quali siano i beni comuni resta un mistero più grande di come possano essere gestiti in modo comunitario. Oscura in quello che definisce, la teoria dei beni comuni non è nemmeno chiara in quello che chiede.
Collegare l’esigenza di una nuova categoria di beni, quelli comuni, alla democrazia, alla partecipazione attiva, alla solidarietà e responsabilità di gestione è un tentativo avvincente quanto concretamente debole e scivoloso. Oltre il fascino dell’espressione “democrazia dei beni comuni” si fa fatica a vedere qualcosa di originale e fattibile: come possiamo tutti quanti gestire concretamente un bene di tutti? Davvero si crede che basti un rappresentante della società civile (individuato peraltro come?) nei cda delle municipalizzata per il servizio idrico per pensare all’acqua come bene comune? Altrimenti, l’alternativa è ritenere che la gestione pubblica dei beni comuni sia affidataria, per sua stessa vocazione, dell’interesse comune.
Se così fosse, la neolingua dei beni comuni si sovrappone al vecchio linguaggio della proprietà e della gestione pubblica, lucidando di nuovo i ferri vecchi delle società pubbliche. Dietro la neolingua del benecomunismo sembra celarsi l’antico dissidio pubblico/privato, di cui proprio l’aggettivo “comune” vorrebbe rappresentarne il superamento. La nuova poesia del mondo e dell’uomo, di cui narrano gli aggettivi che sottendono all’idea di beni comuni come terza via rispetto a proprietà pubblica e privata, collassa nella prosa di una impossibilità fattuale di una gestione autenticamente collettiva di questi beni e nel ripiegarsi, come nel caso del referendum italiano sull’acqua, in una campagna per la gestione pubblica di un bene già indisponibile al patrimonio sia pubblico che privato. Proprio in occasione di quel referendum, la carica emozionale ha dissimulato l’unico reale effetto della battaglia per l’acqua bene comune: il tentativo di ripubblicizzazione della gestione dei servizi pubblici, qualcosa di lontano forse dalle stesse tesi originarie sui beni comuni, come si è visto all’inizio.
La dottrina dei beni comuni, alla sua prima applicazione pratica di una certa rilevanza nel nostro paese, è quindi implosa in una campagna per la ripubblicizzazione dei servizi pubblici locali, mostrando non solo la sua scarsa originalità, ma anche la sua incoerenza rispetto all’obiettivo di agire responsabilmente nei confronti delle generazioni future.
Pur non essendo un concetto giuridicamente (ancora) valido, quello dei beni comuni è però già un concetto immaginifico, con profonde implicazioni anche sul piano della regolazione. E’ il cerchio del diritto: un sistema di catalogazione prima di tutto linguistica della realtà che, nella ritualità di un linguaggio performante, si trova viceversa a dare sostanza alle cose. Un’operazione nota al diritto classico, come spiegano Yan Thomas e Michele Spanò in un denso libretto su “Il Valore delle cose nel diritto romano” (edizioni Quodlibet), attraverso la quale le parole finiscono per creare le cose, il diritto finisce per creare il valore. Sullo sfondo, ad esempio, dell’espressione “acqua bene comune” c’è una scelta di campo, un’opzione di valore, che è il rifiuto ideologico della possibilità di dare a tale elemento una qualificazione e quantificazione economica, anche negli aspetti più pratici e gestionali.
Se, come scrive Michele Spanò, “la retorica avrebbe offerto, in qualche misura, l’incunabolo di quel rapporto tra res e verba che il diritto avrebbe finalmente fissato”, quella dei beni comuni è senz’altro una retorica al quadrato, che, inconsistente nel diritto positivo, ha già però dimostrato una forte capacità visionaria, retorica appunto, rispetto alla quale dovremmo iniziare a chiederci quali siano le conseguenze reali, e non solo retoriche.

Da Il Foglio, 9 luglio 2015

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