Scriveva Alessandro Giuli sul Foglio del 25 febbraio un semi-serio peana della democrazia. Non sono sicura che la democrazia rappresentativa sia mai stata, come dice il condirettore, azzoppata, perché non sono sicura che abbia mai poggiato su solide gambe, se non nei sogni degli accademici. Se non esiste giustificazione al potere migliore della democrazia, non esiste nemmeno una prassi democratica che accertatamente sia in grado di limitare il potere. Tra democrazia e autorità il rapporto è solo legittimante. Meglio di nulla, ma nulla rispetto all’esercizio effettivo del potere che l’autorità sovrana in democrazia può legittimamente affermare.
Ecco perché il problema del funzionamento e dell’organizzazione dei corpi intermedi, classicamente i partiti ma ormai non più solo essi, del loro rapporto con le istituzioni e dell’organizzazione delle istituzioni stesse è, per quanto distante dai problemi quotidiani, un problema centrale. E’ un insegnamento risalente, lo stesso che invita a preoccuparsi più del bilanciamento tra poteri che della loro ultima legittimazione, lo stesso che ha consentito ai giudici di farsi organo contro-maggioritario rispetto ai parlamenti e all’Europa di superare lo scoglio del deficit democratico.
La riforma elettorale, arrivata quasi al termine, e quella costituzionale, alla fine del primo giro di approvazione, restano molto più importanti di quanto una prima reazione voglia. Quanto alla riforma elettorale, a proposito di potere contro-maggioritario, l’immaturità dei partiti ci ha condotti a una situazione surreale di un sistema di voto ricavabile per via interpretativa dai tagli della Corte costituzionale. Senza la spinta della Consulta – azzardata ma chissà, benefica – non avremmo avuto nemmeno l’Italicum.
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