Il 15 luglio del 1848 nasceva Vilfredo Pareto. Già nell’anno di nascita era come scritto un destino. Solo poche settimane prima Parigi era stata teatro dell’insurrezione “più grande e singolare che vi sia stata nella nostra storia e forse in qualsiasi altra” (Tocqueville). Che cosa muove l’azione politica? La domanda perseguita Pareto dalla militanza politica giovanile fino agli ultimi anni. La sua vita si conclude nel 1923, a metà strada fra la marcia su Roma e il delitto Matteotti: una certa prossimità al fascismo gli costa il biasimo dei posteri. E tuttavia, persino nel ’23, persino su “Gerarchia”, Pareto mette in guardia dal “pericolo di avventure forestiere”, da una “dedizione al partito cattolico” che faccia dimenticare che “vi è più male da temere che bene da sperare da limitazioni della ‘libertà’ religiosa”, suggerisce di tener cara la libertà di stampa perché possano emergere, cammin facendo, correzioni agli errori di rotta.
Oggi Pareto è ricordato dai più per l’“ottimo” (l’equilibrio che non può essere alterato a vantaggio di uno senza creare danni ad altri); per la sua legge di distribuzione dei redditi; per aver fondato, assieme a e autonomamente da Gaetano Mosca, la scienza politica con la teoria delle élite. Contributi ciascuno dei quali basterebbe a giustificare una carriera, e che pure sono immersi in una vita di passioni e travagli profondi, sui quali fa luce l’importante biografia intellettuale di Fiorenzo Mornati. Il primo volume, uscito nel 2015, riguardava gli anni giovanili, quelli del liberalismo più intenso (fino al 1891), maturato leggendo Mill, Spencer e Bastiat. Il secondo ha per titolo Illusioni e delusioni della libertà (1891-1898) (Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 2017 € 38).
Pareto nasce a Parigi, madre francese, e rientra in Italia sei anni dopo. Il padre Raffaele è ingegnere e mazziniano: ne influenza la scelta degli studi (frequenta a Torino la scuola di applicazione per ingegneri, l’attuale Politecnico) ma non le idee. Prima ancora di avere un “sistema” della libertà, Pareto ne aveva l’istinto, una epidermica insofferenza verso il potere che le esperienze di vita, implacabili, confermeranno.
Professore lo diventerà a oltre quarant’anni, chiamato a succedere a Leon Walras a Losanna. Arriva in Svizzera, ricorda Mornati, forte di una grande esperienza di conferenziere ma senza aver mai fatto lezione. E dall’insegnamento comincia presto a sognare di ritirarsi, appena l’eredità dello zio Domenico glielo rende possibile, per intraprendere il cantiere del suo Trattato di sociologia.
Prima che professore, Pareto era stato manager: nella Società delle Strade Ferrate Romane di Firenze e poi alla società ferriera di San Giovanni Valdarno. Se Marx doveva appoggiarsi al fido Engels per fare esperienza dell’attività del capitalista, il “Marx della borghesia” ne ha conoscenza di prima mano. Tocca da sé i guasti dell’interventismo, che minaccia i settori industriali che meglio conosce, umiliando la creatività imprenditoriale, distribuendo rendite col pretesto della gloria nazionale. Del resto, noterà anni dopo, la parola “individuo” indica una realtà concreta, mentre i vessilli della “società” marcia un assembramento di nozioni plastiche e vaghe.
Il Pareto giovane attivista, e pensatore, liberale è assertivo, ipercinetico, entusiasta. Legge con avidità, sguazza a suo agio fra i classici, piega la sua prosa italiana al giudizio e alle correzioni di Emilia Peruzzi per migliorarla, lavora con Felice Cavallotti, manda corrispondenze, cerca alleati all’estero. L’ambiente liberale italiano comincia a spiacergli, vede che si sono persi “i principi del conte di Cavour”, gli interessi li hanno travolti: la borghesia è ben felice che lo Stato ingrassi se è lei a trarne profitto. Diventa un grande sostenitore della formalizzazione matematica dell’economia ma, allo stesso tempo, guarda oltre i confini della disciplina, alla sociologia, per comprendere i fenomeni sociali. Che cosa muove l’azione politica?, appunto.
Se a un certo punto Pareto comincia a considerare “utopie” le “teorie di parecchi economisti liberali” è perché essi “si figurano che basta dimostrare buono un principio perché il popolo lo segua”. E questo invece non accade, né quando è lui a dimostrare buono un principio né quando tocca ad altri.
I mercati sono il regno delle “azioni logiche”, quelle per cui c’è una connessione fra l’azione stessa e l’esito atteso. Ma la politica è invece l’ambito di scelte che quella connessione non la rivelano, azioni non-logiche sovrastate da simboli e miti. Di qui lo scavo alla ricerca di residui e derivazioni: istinti che spiegano il comportamento, forme di giustificazione che l’imbellettano.
Forse nelle formule fascinose e talora oscure del “Trattato di sociologia generale” c’è molto che possa aiutarci a comprendere la nostra, di attualità politica. E non solo perché Pareto, “ateo di tutte le religioni”, era insofferente verso ogni interesse privato travestito da bene pubblico. Convinto che “chi crede ai dogmi del suffragio universale può anche credere all’origine divina degli eroi”, pensava che le “favole” fossero utili o inutili a seconda del contesto, ma favole restassero. Ma anche perché al centro della sua riflessione c’era la consapevolezza dell’interdipendenza dei fenomeni sociali.
Dove non si vede che una causa, “spesso ce n’è in numero grandissimo”. La realtà è un organismo complesso e fragile. L’impetuosa voglia di agire del politico non riesce a farci i conti. E’ così che le buone intenzioni preparano disastri.
Da La Stampa, 16 luglio 2018