17 Dicembre 2015
Il Sole 24 Ore
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Il 3% della popolazione mondiale risiede e lavora in un Paese diverso da quello in cui è nata. 200 milioni di persone sembrano un’infinità ma, secondo il World Gallup Poll, il 40% degli adulti che vivono nei Paesi del quintile più povero del mondo vorrebbe trasferirsi altrove.
C’è di che aver paura? La globalizzazione del lavoro mette a rischio il nostro benessere? Non si rischia di “derubare” di capitale umano di qualità proprio i Paesi che più ne avrebbero bisogno?
Ben Powell (direttore del Free Market Institute della Texas Tech University), in The Economics of Immigration, ha riunito una serie di contributi utili a riportare la discussione sui binari della razionalità.
Ricorda Richard Vedder (professore emerito di economia alla Ohio University) che «gli Stati Uniti sorpassarono la Gran Bretagna in termini di produzione totale negli anni 70 dell’Ottocento, e in termini di produzione pro capite nel primo decennio del Novecento: periodi di intensa immigrazione e privi di significativi ostacoli all’arrivo di immigranti».
Gli immigrati sono persone e le persone sono lavoro, idee, consumi. Adam Smith ci ha insegnato che «la divisione del lavoro è limitata dall’estensione del mercato». Quanta più gente “partecipa” al gioco economico, tanto maggiore è il grado di divisione del lavoro che si può perseguire. Con la specializzazione cresce produttività.
Questo è vero sia che si parli di commercio internazionale (le distanze si accorciano e aumentano così transazioni e scambi) sia che si parli di crescita demografica (i “partecipanti” al mercato aumentano nel medesimo perimetro).
Eliminando le barriere politiche alla mobilità internazionale del lavoro, ricorda Powell, il Pil mondiale potrebbe salire fra il 50 e il 150 per cento. Nella stima più conservativa, il Pil mondiali aumenterebbe della metà. In quella più ottinistica, di una volta e mezzo.
Ma non c’è medaglia senza rovescio. I migranti, tendenziamente persone che hanno scarsa istruzione o comunque un più basso costo opportuna per svolgere mansioni umili, non minacciano proprio i lavoratori che più fanno fatica, nel nostro mercato del lavoro? Ci sono opinioni diverse, ma pare che l’«immigrazione verso gli Stati Uniti tra il 1990 e il 2005 ha ridotto i salari degli abitanti originari del Pese privi di un diploma di scuola superiore di appena lo 0,7 per cento nel breve periodo e li ha accresciuti dello 0,6-1,7 per cento sul lungo periodo».
Che dire invece dell’impatto fiscale dell’immigrazione? Gli immigrati non finiscono per contribuire indirettamente a un aumento della pressione fiscale sui nativi, consumando welfare? Per Alex Nowrasteh (analista del Cato Institute) dipende dal «genere di beni pubblici consumati dagli immigranti. Gli immigranti riducono gli oneri fiscali necessari per la fornitura di beni pubblici puri, quali la difesa nazionale e il pagamento degli interessi sul debito».
Nel caso, invece, di servizi che hanno beneficiari chiaramente individuabili, come la scuola o la sanità, il fatto che essi aumentino di numero «può ridurne la qualità, inducendo il governo ad aumentare la tassazione al fine di mantenere la qualità dei beni pubblici in questione». L’arrivo di nuovi contribuenti può viceversa aiutare lo Stato sociale, soprattutto in società che invecchiano. I dati che abbiamo a disposizione, ammette Nowrasteh, sono ancora pochi e l’impatto degli irregolari è di ardua quantificazione.
Potrebbe sembrare che questo libro faccia il gioco tipico degli studiosi: biasimare l’ignoranza del volgo, cui sfuggono i dati di fatto che invece gli esperti maneggiano con tanta sicurezza. Ma un tentativo di considerare come legittime le preoccupazione dei più, e di darvi una risposta razionale, c’è e se ne fa carico Richard Vedder.
Vedder riprende una proposta di Gary Becker: utilizzare i prezzi per “selezionare” l’immigrazione, riducendo così il potere discrezionale della politica. La possibilità di cambiare Paese «non sarebbe determinata dalla vostra nazione d’origine, dal tempo trascorso in attesa di essere ammessi, dai vostri familiari che vivono negli Stati Uniti, dal livello delle vostre skill secondo il giudizio di un qualche burocrate o da analoghi criteri». Ci sarebbe invece una tassa d’ingresso, una tariffa per ottenere il visto, come si fa in un qualsiasi club. «L’ammontare della tariffa» non sarebbe fisso ma «varierebbe al mutare delle condizioni del mercato, analogamente a quanto avviene per le licenze dei taxi nella città di New York».
«In periodi di ridotta disoccupazione complessiva, in cui sussiste effettivamente una scarsità percepita di manodopera in determinate località o professioni, il numero dei visti messi in vendita potrebbe essere aumentato, così come tale numero potrebbe ridursi in perodi di recessione, quando la richiesta di forza-lavoro è minore». Non è un sistema perfetto, e non rappresenta una soluzione alla questione-rifugiati. È facile criticarlo, come una forma di speculazione sulla pelle di chi cerca un’opportunità migliore. Tuttavia chi si trova in quella posizione, noi nel Mediterraneo lo sappiamo bene, si svena per affidarsi a qualche spacciatore di speranza. Rendere quel processo più regolare e trasparente può sottrarre risorse alla criminalità, e stemperare la paura dell’anarchia migratoria.
Benjamin W. Powell (a cura di), “The Economics of Immigration. Market-Based Approaches, Social Science and Public Policy”, Oxford, Oxford University Press, pagg. 272, $ 34,95
Da Domenica – Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2015