Anche l’economia, la politica e, quindi, la politica economica di una nazione (absit iniuria verbis) avrebbero bisogno di chiamare le cose con il loro nome. Non è una fissazione di Tempi, che pure ci starebbe tutta intera, quanto piuttosto l’utile ricorso al principio di realtà: semplifica, aiuta e rende chiaro ciò che le sofisticazioni verbali di questa era coprono con un velo neppure tanto pietoso. Draghi non c’è più, e questo lo stiamo dicendo tutti e in tutte le salse. C’è però lo scenario economico del prossimo futuro e la condotta di uno Stato che ricorre agli strumenti che conosce per far fronte alla crisi.
Comune denominatore è l’elargizione dall’alto verso il basso di danaro che sarà prima “sussidio” poi “ristoro” e adesso “aiuto”: tutti preceduti da una D maiuscola per indicare il decreto statale di riferimento normativo. È giusto? È sbagliato? Funziona, non funziona, dove andremo a finire? Se l’è chiesto il 28 luglio sul Corriere della Sera il professor Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, uno che queste cose le conosce e, soprattutto, le capisce.
Professore, lei ha parlato di “Stato elemosiniere”. Qualcuno potrebbe obiettare: ma non è che ormai i buoi sono scappati dalla stalla e altra soluzione non c’è?
Per parlare di una soluzione bisogna prima intendersi su quale sia il problema. Nel nostro paese distribuire elemosine è una sorta di soluzione universale. Se l’obiettivo è rendere una porzione sempre più ampia della società italiana dipendente dallo Stato e dunque dalla politica, la strategia scelta è impeccabile.
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