L’intera eurozona è esposta verso la Grecia per 195 miliardi di euro, l’Italia è il terzo creditore, per 40 miliardi. E tuttavia sono proprio quei leader che più ostentatamente fanno bandiera del nostro “interesse nazionale”, a esultare perché le elezioni greche sono state vinte da un signore che ha promesso, in buona sostanza, di non ripagare quei debiti. È uno dei paradossi della politica: attività serissima, specie quando gestisce grosso modo metà del prodotto interno lordo, e tuttavia tipicamente condotta con la sobrietà, la lungimiranza, l’equanimità tipiche di una banda di hooligans.
È inevitabile che la vittoria di Alexis Tsipras e di Syriza provochi una tempesta sui mercati, nonostante la sedazione indotta dal QE della Banca centrale europea. Nel mondo dei sostenitori di Tsipras, un crollo dei mercati è la punizione divina per la hybris di banchieri e supermanager: un castigo divino per l’1% più ricco della popolazione. Nel mondo reale, in gioco ci sono i risparmi delle persone, le aziende in cui lavorano, le tasse che dovranno pagare, le loro pensioni.
I giornali ci hanno spiegato che Tsipras è un personaggio meno bidimensionale e più accorto di quanto appaia, un uomo con esperienza e intelligenza politica, nelle pieghe del cui programma ci sono anche misure concrete per la liberalizzazione dell’economia greca dalle bardature che ancora la opprimono. Rispetto a una campagna elettorale imbastita su comprensibili paure, tendenza assai comune ma deleteria nei periodi di grande crisi, governare è un altro paio di maniche e come lo farà, probabilmente, non lo sa nemmeno Tsipras: dipende anche dalla reazione degli Stati e dell’Unione europea, dalla possibilità, poi non così remota, di negoziare qualcosa. Quello che però si può già ora presentire è che egli ha davanti, sostanzialmente, due strade: o deludere i suoi sostenitori, mettendosi in condizione di cavalcare il barlume di ripresa che il Fondo Monetario intravede per la Grecia (ma non, per inciso, per il nostro Paese), oppure farsi paladino di un ritorno allo spreco su vasta scala, che latinoamericanizzi la Grecia, contagiando poi anche il resto del continente. Tra le due, c’è sempre posto per un accomodamento che continui a trascinarci nelle secche di una spesa pubblica fuori controllo mascherata da giustizia sociale, di un protezionismo delle paure e delle frustrazioni, della demagogia.
Ciò detto, forse i populismi avrebbero assai meno forza, se la risposta delle classi dirigenti europee non fosse sempre la disponibilità a “whatever it takes” per tenere assieme una certa idea dell’Unione Europea. Quando un club non ha regole d’uscita, è inevitabile che i membri lo vivano come una prigione. Le sue stesse regole fondative perdono completamente senso, perché non c’è nulla che non si sia disposti a fare per tenerlo in vita. Anche contravvenire a quelle regole. L’establishment finisce così per fare proprie le scommesse più spregiudicate degli outsider, nel momento in cui trova un fondamento quasi mistico per la discrezionalità delle sue decisioni.
Se l’Europa non fosse più un destino, ma quello che è: un costrutto umano frutto delle circostanze, forse sarebbe possibile discuterne in modo diverso, ricordare che si fonda su patti che debbono essere presi sul serio perché il suo percorso possa proseguire, ragionare sull’equilibrio fra Stati membri e Bruxelles. Il vantaggio immediato di considerare l’Europa il nostro destino consiste nell’espellere dalla credibilità chiunque si azzardi a criticarla, quale che sia il motivo, facendo di tutte l’erbe un fascio. Tuttavia, il martirio è un formidabile strumento di consenso, per la fazione dei martirizzati.