Da Reagan al tycoon: scacco al liberalismo

Passando da Reagan a Trump il partito Repubblicano ha cambiato completamente posizione su numerose questioni

5 Febbraio 2025

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

«Il mondo ha vissuto un brutto spettro: il protezionismo e le guerre commerciali». Così il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan parlava nel 1982 a proposito degli anni Trenta. Anni in cui in America vigeva una drastica legge tariffaria per proteggere i produttori colpiti dalla Grande depressione. Un secolo dopo, con Trump lo spettro è tornato.

Sempre Reagan, nel discorso di commiato alla Nazione, disse agli americani che «se avessero dovuto esserci mura cittadine, avrebbero avuto porte aperte a chiunque avesse avuto la volontà e il cuore per arrivarci». Trent’anni dopo, il suo successore alla Casa Bianca avrebbe celebrato la costruzione di un pezzo di muro al confine con il Messico come uno straordinario successo. Come è possibile che lo stesso partito repubblicano sia passato ad esprimere due candidati, e due presidenti, così diversi?

Ci sono molte spiegazioni relative al sistema partitico americano e ad esso ancillari, ma c’è anche un motivo più teorico e culturale, che interessa anche noi dall’altra sponda dell’Atlantico. Libertà di commercio e libertà di movimento sono due facce della stessa medaglia: la possibilità e la sempre maggiore facilità di andare da un posto all’altro o di portarvi beni e servizi. In una parola, due facce della globalizzazione. Un fenomeno che, tra l’epoca di Reagan e quella di Trump, è stato ampiamente messo in discussione, benché non sia venuto meno alle promesse che lo hanno accompagnato. Mentre il tasso di povertà globale passava dal 47,8% nel 1990 all’8,2% nel 2019, mentre – tra il 2000 e il 2015 – in 15 paesi, di cui la metà africani, 802 milioni di persone uscivano dalla povertà, in America e in Europa si raccontava il contrario, ovvero che la globalizzazione e i suoi sregolati mercati fossero la causa di ingiustizie e disuguaglianze crescenti, dentro e fuori il proprio continente. Dentro, a causa della concorrenza selvaggia delle economie che, beneficiarie della globalizzazione, si stavano sviluppando. Fuori, perché le regole della globalizzazione venivano scritte dai Paesi avanzati e dalle organizzazioni internazionali che guidano, a loro vantaggio.

In realtà, la globalizzazione non è il frutto di trattati commerciali e accordi politici tra gli Stati. Casomai è vero il contrario, cioè che quegli accordi servono a rimuovere barriere artificiali che sono state messe precedentemente dagli Stati, o a promettere di non innalzarle. Esattamente quelle barriere che ora, con i dazi, Trump per primo e gli altri per reazione vogliono ripristinare. Una simile considerazione vale per la libera circolazione: la firma di accordi tra Stati si è resa necessaria non a consentirla, ma a eliminare i controlli alle frontiere che, non a caso, si definiscono confini politici.

Oggi vi è un generale consenso sulla sconsideratezza della politica tariffaria trumpiana. Eppure, per dirla col premio Nobel Stiglitz, non un simpatizzante né di Trump né della globalizzazione, il presidente degli Stati Uniti ha solo interpretato un pensiero che è diventato comune: le frontiere sono importanti. E lo sono perché proteggono una middle class che ha subito lo sviluppo di economie straniere. Difatti, i dazi che ha messo durante il primo mandato sono stati ampliati da Biden, mentre l’Europa, con la stessa logica, metteva i suoi dazi compensativi sui veicoli elettrici cinesi. La guerra commerciale avviata in questo secondo mandato è l’estremizzazione di un disagio trasversale verso una globalizzazione che avrebbe mostrato tutti i suoi limiti, agli occhi di molti pur lontanissimi dalle idee del neo-presidente. Che ne siano destinatari Paesi amici o no è solo, in fin dei conti, una contingenza del momento, specie per un presidente volubile nelle alleanze.

La storia insegna che alzare barriere economiche non ha mai aiutato la prosperità e il benessere dei popoli, nemmeno di quelli che le politiche protezionistiche pretendono di tutelare, come dimostrarono proprio i dazi degli anni Trenta richiamati da Reagan. Il fatto che Trump sia figlio di tempi molto diversi da quelli in cui nacque Reagan non esime dal riflettere se davvero la nostra epoca ha dimostrato il fallimento della globalizzazione. O se proprio la reazione giustamente preoccupata alle misure di Trump non sia la dimostrazione dei benefici acquisiti, che si teme vengano annullati da scelte politiche scellerate oggi e sbagliate ieri, a prescindere da chi governa.

oggi, 5 Febbraio 2025, il debito pubblico italiano ammonta a il debito pubblico oggi
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