Chi si aspetta un impossibile accordo per azzerare immediatamente le emissioni climalteranti, probabilmente vedrà il bicchiere di Glasgow mezzo vuoto – o vuoto del tutto. Chi, invece, sa che la strada verso la decarbonizzazione è lunga, costosa e complessa, non può che vedere nell’esito del G20 di Roma un segnale incoraggiante verso un atteggiamento pragmatico, che tiene conto sia della necessità di mitigare il cambiamento climatico (e adattarsi a temperature crescenti), sia di quella opposta di coniugare la politica ambientale con la crescita economica. E mai come in questo momento, all’indomani della durissima recessione dovuta al Covid-19, la necessità di coerenza è stata altrettanto forte.
I leader dei venti paesi più industrializzati, intanto, si sono formalmente impegnati a lavorare per trovare un accordo a Glasgow, dove sono in corso i negoziati annuali sul clima. Hanno riaffermato la fiducia nel processo messo in moto a Parigi nel 2015. Hanno ribadito l’impegno a rispettare ed eventualmente rafforzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni concordati. Hanno insistito sul taglio dei sussidi alle fonti fossili, pur collocando il target “nel medio termine”. Possono apparire – e, ovviamente, sono – promesse vaghe, ed è inevitabile che sia così in una dichiarazione di questo genere. Ma, se messe in relazione al meccanismo di Parigi, acquistano consistenza.
L’accordo di Parigi, infatti, rappresenta un netto scarto rispetto ai summit climatici avvenuti sino ad allora: memori anche dei fallimenti delle Conferenze delle parti precedenti, in quel meeting si era deciso di abbandonare la logica dei “targets & timetables” calati dall’alto, su cui era impossibile trovare compromessi. Si era al contrario scelto di raccogliere impegni individuali e volontari degli Stati membri, spostando la responsabilità della riduzione delle emissioni dalle imposizioni centralizzate alle responsabilità distribuite. E la cosa sta funzionando: secondo le stime più recenti, se gli impegni finora presentati saranno rispettati, l’aumento delle temperature a fine secolo di collocherà di poco al di sopra dei 2 gradi, la soglia convenzionalmente ritenuta sicura. Ma è probabile che l’evoluzione tecnologica nei prossimi decenni ci consentirà di avere una performance migliore; specialmente se i paesi a basso reddito vedranno crescere il proprio benessere e avranno dunque i mezzi per perseguire risultati più ambiziosi. Intanto, tutte le principali economie mondiali – l’Unione europea, gli Stati Uniti, la Cina – hanno formalizzato (o stanno formalizzando) le rispettive roadmap per arrivare alla neutralità climatica tra il 2050 e il 2060.
Insomma: a dispetto dell’ideologia e del massimalismo che caratterizza il dibattito sul clima, i vertici internazionali cercano una strada pragmatica per raggiungere il risultato sperato. Costruire consenso politico e preservare la crescita economica è un lavoro difficile che può procedere solo un passetto dopo l’altro: il bla bla bla non sta negli sforzi negoziali ma negli slogan rivoluzionari di chi, volendo tutto subito, rischia di non avere niente mai.
2 novembre 2021