Dal maoismo alla Borsa, così l'onda capitalista ha sommerso la Cina

Il libro di Ronald Coase e Ning Wang, appena pubblicato da IBL Libri, ripercorre tutte le tappe della metamorfosi, non solo nell'economia, nei campi, nelle fabbriche, ma anche in piazza

19 Aprile 2014

Corriere della Sera

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Tutto è iniziato in un piccolo villaggio, chiamato «Collina del drago numero nove», nella provincia dello Sichuan, Cina centro -meridionale. Qui, una sera del settembre 1976, è partita quella rivoluzione poi sfociata nei grattacieli di Pechino e nella Borsa di Shanghai. La prima pietra del passaggio della Cina dal comunismo di Mao al «capitalismo» di oggi è stata scagliata 38 anni fa da Deng Tianyuan, segretario del partito della comune del paesino del profondo entroterra cinese: l’uomo radunò un piccolo gruppo di quadri locali per discutere il problema della produzione agricola e, «dopo un lungo e acceso dibattito, concordarono sul provare l’agricoltura privata come soluzione ai problemi amministrativi e all’assenza di incentivi che affliggevano le coltivazioni».

Così si legge nel libro «Come la Cina è diventata un Paese capitalista» di Ronald Coase e Ning Wang, pubblicato in Italia da IBL Libri, la casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni guidato da Alberto Mingardi.

Privata quella nuova agricoltura del 1976 non lo era del tutto, come spiega il libro, perché la terra restava formalmente di proprietà dello Stato; ma a cambiare erano le forme di gestione. Così, passo dopo passo, si è poi arrivati alla svolta più importante e dirompente, quella del 26 agosto 1980, quando l’Assemblea nazionale del popolo ha approvato le norme per le «zone economiche speciali» della provincia del Guangdong: proprio quella; la regione alle spalle della turbocapitalistica Hong Kong. E l’allora colonia britannica, da ultima roccaforte dell’economia di mercato (insieme a Macao) rimasta sulla terraferma cinese, si è trasformata in una sorta dí «benchmark» per l’intero Dragone rosso. Da retrovia del capitalismo assediato dal comunismo, Hong Kong è diventata in un certo senso guida e faro della nuova Cina globale, economicamente aperta al mondo anche se politicamente ancorata al partito di Mao.

Già, la politica. Perché il libro ripercorre tutte le tappe della metamorfosi cinese, non solo nell’economia, nei campi, nelle fabbriche, nei grattacieli e nelle Borse. Ma anche in piazza. Come in quei terribili primi giorni del giugno 1989 a Tienanmen.
Una repressione, una tragedia. Eppure, solo pochi giorni dopo, il 9 giugno, l’allora numero uno di Pechino Deng Xiaoping ha detto: «La cosa importante è che non dobbiamo mai far ritornare la Cina a essere un paese che tiene chiuse le sue porte». Parole che suonano inconciliabili con i fatti di pochi giorni prima. E che in qualche modo raccontano il connubio molto cinese tra economia dinamica e politica monolitica. Con quest’ultima che, quando parla di economia, ricorda il discorso di Deng del 1992: «Un’economia di mercato non è capitalismo, perché esistono mercati anche nel socialismo».

Così i comunisti si fanno ancora chiamare comunisti, mentre le Borse impazzano, si moltiplicano i negozi delle griffe occidentali e le residenze dei Paperoni con gli occhi a mandorla. Accanto ai contadini delle campagne dell’entroterra e agli operai delle gigantesche fabbriche.
E accanto al problema dell’inquinamento, al recente rallentamento dell’economia e ai rischi di scoppio di «bolle» finanziarie: altro aspetto molto capitalistico della Cina rossa, operosa e rampante.

Dal Corriere della sera, 19 aprile 2014

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