Dazi, piattaforme e big tech. Il neo materialismo dell’Europa

La politica Ue vive in una sorta di reflusso dopo una stagione di ideali, per una svolta servirebbe ridurre il peso di regole e burocrazia

8 Luglio 2024

Corriere Economia

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

In uno dei commenti più acuti sulle elezioni europee (e ancor più su quelle francesi), Christopher Caldwell, sul New York Times, ha sottolineato la contraddizione fra la retorica politica di ieri e l’esito di quest’ultimo appuntamento elettorale. «Gli europei hanno incarnato la difesa dell’ambiente, l’autorealizzazione, l’espressione di sé e altri valori descritti dallo scienziato politico Ronald Inglehart come post-materialisti.

Gli europei stessi usavano questo termine. Ne andavano fieri. Oggi la politica europea — e soprattutto quella francese — è ultra-materialista. I temi più esplosivi delle ultime elezioni sono stati il potere d’acquisto, il prezzo del gasolio, l’età di pensionamento e la carenza di alloggi. Le preoccupazioni dell’Europa sono più vicine al mondo settecentesco delle rivolte per il pane che a quello novecentesco del salvare le balene».

Non c’è bisogno di condividere l’antieuropeismo di Caldwell (per cui l’Ue si è dimostrata più obsoleta degli stati-nazione che voleva superare) per ammettere che coglie un punto cruciale. Ci sono sicuramente timori di carattere cultural-identitario dietro il successo di alcuni fra i partiti più severi con Bruxelles, come Fn e Afd. Ma la stessa questione dell’immigrazione è tanto più sentita quanto meno un Paese riesce a esprimere crescita economica.

Il successo dell’Europa come «codificazione dei valori che hanno vinto la guerra fredda» si realizzava in un momento nel quale il futuro appariva sereno. «A dieci anni da Maastricht, sembrava che imprese europee come Nokia ed Ericsson potessero fare con l’hardware dei cellulari quello che gli Stati Uniti stavano facendo con i dati. Ma non è andata così. Oggi, secondo la classifica di Forbes, nessuna delle prime 15 aziende digitali del mondo è europea. Questa non è solo un’umiliazione. Significa anche che l’Europa ha poco su cui costruire una ripresa economica credibile». Detto altrimenti: «gli europei non possono più dare per scontata la prosperità».

In una certa misura questi timori sono eccessivi, l’Unione europea resta il più grande mercato unico del mondo, la maggiore economia per esportazioni e il principale mercato di riferimento per le imprese di altri 100 Paesi. Ma è anche uno spazio cultural-politico nel quale più che altrove oggi vince il bisogno di protezione e dove stiamo imparando a guardare a qualsiasi novità come a un potenziale pericolo.

Da questo punto di vista, l’analisi di Caldwell trova conferma nelle iniziative con cui, dopo le elezioni, Bruxelles si è fatta sentire. Ovviamente, la Commissione è quella dello scorso quinquennio (non che la nuova sarà granché diversa) e nessuna di queste tre decisioni è conseguenza diretta del verdetto elettorale. Parliamo di coincidenze, ma di coincidenze istruttive.

Primo, i dazi contro i veicoli elettrici cinesi. Una misura standard di protezione dell’industria europea, per quanto avversata dagli stessi produttori di automobili. Finanziata a suon di sussidi la transizione all’elettrico, ci siamo accorti che a trarne vantaggio erano i cinesi, i quali hanno rapidamente ridotto le distanze con i grandi dell’automotive: anche perché il know how secolare del motore a scoppio è diventata, per decisione politica, obsoleto. Secondo, la sanzione ad Apple per avere violato il Digital Markets Act, che presuppone ecosistemi aperti per le piattaforme quando l’azienda di Cupertino, da sempre, ne propone uno relativamente più chiuso di altri, anche a vantaggio della sicurezza dei propri utenti. Terzo, quando Microsoft ha annunciato una partnership con OpenAI e Google di voler installare la propria intelligenza artificiale sui dispositivi Samsung, la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager ha fatto sapere che avrebbe aperto un’indagine. Non è chiaro quale sia l’oggetto del contendere, sotto il profilo antitrust, e nemmeno quali siano le nonne violate. Ma, se si ha a che fare con le grandi piattaforme, spiega Vestager, la vigilanza dev’essere continua.

Senza entrare nel merito dei provvedimenti, queste tre cose restituiscono l’impressione di un continente in difesa, che nella migliore delle ipotesi cerca di limitare i danni L’impressione è che non solo abbiamo perso certi treni — persino quello dell’auto elettrica, che pure abbiamo così fortemente voluto. Ma che siamo convinti che non passeranno più. Di qui, il «materialismo» degli elettori, per usare l’espressione di Caldwell, che badano a non mettere a repentaglio quello che hanno. E una risposta politica «istituzionale» che negli ultimi anni è stata fallimentare.

Sarebbe sbagliato sostenere che l’establishment sia stato sordo alle paure degli elettori. Anzi, in molti casi le ha fatte proprie. Il guaio è il metodo: regole, sanzioni, sussidi. L’Unione europea pare incapace di fare altro. Al limite può sanzionare (coi dazi) ciò che pure continua a sussidiare (i veicoli elettrici). L’idea però di scommettere su imprese e cittadini europei come fabbri, liberi e autonomi, dell’innovazione non la sfiora nemmeno.

Gli europei non si fidano delle loro élite ma per prime le loro élite non si fidano degli europei. Per questo si parla e si parlerà di qualsiasi strategia per la crescita tranne che di una: ridurre il peso delle regole, sottrarre un po’ di spazio all’intervento pubblico, creare opportunità per la creatività delle persone. In pratica siamo disposti a tutto, fuorché a ritrovare quel sentiero che ci ha fatto diventare ricchi.

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