30 Marzo 2015
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
L’ingresso dei soci cinesi di ChemChina all’interno del capitale azionario della Pirelli, che ora è maggioritariamente nelle mani degli investitori asiatici, ha suscitato varie reazioni: in prevalenza negative. In molti hanno evidenziato che, in tal modo, l’Italia”perderebbe” un altro pezzo della propria industria.
Dopo la Parmalat e l’Edison acquisite dai francesi, l’Alitalia presa dagli arabi, la Pernigotti dai turchi e la Perugina dagli svizzeri, un’altra fetta della”nostra”economia se ne andrebbe. Questa impostazione è tutta nello spirito del nazionalismo economico ed esige qualche puntualizzazione, ben al di là del fatto che anche i nostri imprenditori ovviamente si muovono oltre frontiera e fanno shopping ogni volta che lo ritengono opportuno.
In primo luogo va detto che è sempre difficile pretendere d’individuare una nazionalità quando si parla di aziende di grande e spesso anche di media taglia. Nel linguaggio corrente le imprese di notevoli dimensioni sono spesso dette “multinazionali” proprio perché gli azionisti sono di diversa origine e così gli stabilimenti, i fornitori, i clienti e via dicendo. Anche prima dell’arrivo della ChernChina la Pirelli era un’azienda che guardava al mondo intero come al proprio mercato e poteva essere detta italiana solo per semplificazione.
È così ed è giusto che sia così. L’economia è una forma nobile e sofisticata d’interazione umana che si disinteressa del colore della pelle, della diversità della lingua, di confino passaporti. Fin dai tempi di Genova e Venezia, di Amsterdam o Anversa, le città mercantili erano attraversate da prodotti di ogni genere e di conseguenza intrecciavano le differenti varie culture al fine di soddisfare meglio le esigenze dei consumatori. Il libero mercato implica divisione del lavoro e specializzazione e tutto ciò si esprime assai meglio entro un contesto globale che nelle strette frontiere di un solo Paese.
Lo ha scritto Marx
Per giunta, come Karl Marx ha sottolineato (in sintonia, su questo punto, con tanti autori liberali), il capitale non ha patria. Gli imprenditori guardano al mondo intero come a un insieme di opportunità da cogliere e poco importa quale sia l’identità culturale di chi incontrano. Ogni enfasi sulla nazione ha poco a che fare con il libero mercato, ma molto più con quella progressiva statizzazione della vita economica che segna i momenti di programmazione economica, chiusura commerciale, intervento pubblico.
I precedenti storici
L’incontro tra economia e nazionalismo, però, non promette mai nulla di buono. Alla fine dell’Ottocento fu proprio una simile prospettiva a giustificare l’azione lobbistica di quelle imprese che, in vari Paesi europei (Italia inclusa), riuscirono a imporre norme protezionistiche a tutela di quella che veniva definita un’economia industriale in fase “nascente”. Ne derivò una limitata integrazione tra i diversi sistemi produttivi e, di seguito, l’imporsi di logiche conflittuali che diedero ragione all’economista francese di metà Ottocento Frédéric Bastiat, persuaso che «se le frontiere non sono attraversate dalle merci, prima o poi sono atti attraversate dagli eserciti». Già l’utilizzo di un linguaggio che distingue tra italiani e tedeschi, tra americani e cinesi, modifica in profondità il senso delle relazioni di mercato e conduce a enfatizzare contrapposizioni e differenze.
Chi conosce d’altra parte la storia del declino dell’Argentina che pure alla fine degli anni Quaranta vantava redditi superiori a quelli della Francia sa quanto abbia pesato, ad esempio, il divieto per le imprese argentine di rivolgersi a fornitori stranieri se un dato bene era prodotto entro il Paese. L’incontro tra interessi parassitari e ideologia sciovinista creò un contesto nel quale era difficile, per le imprese, essere competitive a livello internazionale.
È anche tutto da dimostrare che gli italiani avrebbero l’interesse ad avere sul proprio territorio imprese prevalentemente guidate da connazionali. Potrebbe addirittura essere vero il contrario, se si tiene in considerazione che è molto più facile per un imprenditore locale riuscire a ottenere finanziamenti pubblici, protezioni legali, aiuti e favori vari.
Automobili e statalismo
Forse non è del tutto un caso che la Fiat degli italianissimi Agnelli abbia vissuto tanto alungo all’ombra del potere statale e che sia stato proprio il “canadese” Sergio Marchionne a integrarla nell’economia globale e a riportarla sul mercato.
L’economia reale (quella dei beni e dei servizi prodotti per il pubblico) non è mai un affare di collettività nazionali, ma semmai di individui collegati tra loro da contratti e inseriti entro apparati produttivi.
È però vero che la dimensione territoriale è cruciale perle condizioni istituzionali della vita economica. Nonè importante lanazionalità degli azionistidellaPirelli, macerto questa impresa al pari delle altre inve stirà in Italia anche tenendo in considerazione il livello dellatassazione, il funzionamento delle infrastrutture (perlopiù pubbliche), la complessità della regolamentazione, la lentezza della giustizia.
Tutto questo deve però mettere in guardia dinanzi al nazionalismo economico, dal momento che è proprio chi legge l’economia come uno scontro tra Paesi a chiedere come già fece la Scuola storica tedesca di secondo Ottocento un crescente intervento statale.
Per definizione il libero mercato è globale, aperto, tollerante, plurale. Lamentarsi dell’integrazione del nostro sistema produttivo nel vasto mare degli scambi internazionali significa interpretare una cultura in vario modo chiusa, collettivista e avversa al nuovo che può solo aggravare una situazione già ora difficile.
Da La Provincia, 29 marzo 2015