La destra allo specchio della concorrenza

Sovranista e protezionista, com'era, o autenticamente liberale? Giorgia Meloni ha avviato una transizione (per ora) incompiuta

19 Dicembre 2022

Serena Sileoni

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

La realizzazione delle riforme previste dal Pnrr – in particolare in tema di concorrenza – offre a Giorgia Meloni un’opportunità unica: chiarire chi sono o, meglio, chi vogliono essere lei e la coalizione (o anche solo il partito) che guida.

C’è una scadenza importante a tal proposito: entro il 31 dicembre devono essere adottati tutti i provvedimenti attuativi della legge per la concorrenza licenziata dal governo Draghi. Il principale riguarda i servizi pubblici locali ed è stato approvato venerdì. In palio c’è la prossima rata dei finanziamenti europei. Per capirne le implicazioni, bisogna riflettere sulla natura della maggioranza che ha vinto le elezioni del 25 settembre.

Il centrodestra italiano si è presentato, per un lungo periodo, con un’identità liberale e federalista, frutto del portato culturale originario della Lega e di Forza Italia. Ciò non significa che, durante le sue esperienze di governo, la coalizione sia stata consequenziale rispetto alle idee che propugnava. Ma non è questo il punto: il punto è che i partiti di centrodestra volevano essere percepiti come portatori di un’idea diversa di stato. In tal modo, imposero alla sinistra di fare i conti con l’esistenza di una retorica politica alternativa a quella che ruotava intorno alla spesa pubblica, all’uguaglianza incondizionata, ai retaggi della lotta di classe, al sindacalismo. Mai come negli anni Novanta si è parlato di meno stato, meno tasse, più libertà di impresa. Grazie anche a una stagione di riforme che, da Amato a Ciampi a Dini, aveva iniziato a ripensare il ruolo dei pubblici poteri, il centrodestra riuscì a rivoluzionare il dibattito pubblico e farlo virare su temi che sarebbero stati poi reinterpretati dallo stesso centrosinistra che firmò le liberalizzazioni e le privatizzazioni. E’ significativo che, oggi, gli uni e gli altri si vergognino di quella stagione. A sinistra si discute su come meglio espungere il “neoliberismo” dalla propria storia (si veda l’intervento di Alberto Mingardi sul Foglio dell’8 dicembre). E la destra?

Anch’essa ha subito un processo di mutazione. La torsione è stata impressionante: protezionista in economia; reazionaria sui diritti civili; identitaria sull’immigrazione; sovranista sull’Europa e la globalizzazione; populista sui conti pubblici e l’interventismo dello stato in economia. Tutto ciò è stato vero fino alla campagna elettorale dell’estate 2022. A mano a mano che cresceva nei sondaggi, Giorgia Meloni ha cercato di imprimere una sterzata all’immagine sua, del suo partito e dell’intera coalizione: dove prima si invocava spesa pubblica a gogo e nessuna disciplina di bilancio, ora la premier chiede prudenza; mentre i suoi alleati e in particolare Matteo Salvini invocavano un nuovo scostamento di bilancio, lei era l’unica a schierarsi – dall’opposizione – con l’allora presidente Draghi per evitarlo; dove si voleva battere i pugni sul tavolo, lei ha iniziato a predicare atlantismo e europeismo.

Le dichiarazioni della presidente del Consiglio confortano sulla coerenza delle sue intenzioni, ma diversi indizi sembrano suggerire che il travaglio sia ancora profondo.

Le misure “identitarie” contenute nella legge di Bilancio, dall’uso dei contanti alla cancellazione delle cartelle di minor importo, sono rilevanti simbolicamente, ma non finanziariamente ed economicamente. Il balletto sulla ratifica della riforma del Mes è un ulteriore indizio della difficoltà di scegliere su quale crinale incamminarsi. L’ansia di criminalizzare i rave party si oppone a un’idea garantista e liberale di cui il ministro Carlo Nordio è portatore sui temi della giustizia. Tre esempi che fanno una prova di come la transizione, se mai ci fosse, non si sia ancora compiuta e soprattutto non sia stata metabolizzata dalla coalizione guidata da Meloni.

C’è un indizio, peraltro, ancora più chiaro: la denominazione dei ministeri. L’aver scelto di aggiungere “merito” al ministero dell’istruzione e al tempo stesso di aver ribattezzato i ministeri dello Sviluppo economico, della Transizione ecologica e delle Politiche agricole con formule tipicamente nazionalistiche (rispettivamente “made in Italy”, “sicurezza energetica”, “sovranità alimentare e forestale”) esprime un’oscillazione. Da un lato c’è una visione della società “thatcheriana”, dall’altro una opposta – con l’idea di un paese assediato da proteggere da ciò che accade e si produce al di fuori dei suoi confini.

Ecco: la scelta politica che Meloni deve compiere oggi è tra la tentazione sovranista e l’occasione autenticamente liberale. Anche attraverso il suo attivismo internazionale, Meloni ha cercato di affiancare il suo profilo a quello di Margaret Thatcher. Tant’è che il suo impegno di governo si può sintetizzare nella promessa fatta davanti alle Camere di “non disturbare chi vuole fare. Chi fa impresa va sostenuto e agevolato, non vessato”.

Se si tratti di una conversione sincera e se quindi Meloni abbia in animo di resistere alle spinte della sua stessa coalizione, o se piuttosto stiamo assistendo a un gioco di good cop/bad cop è presto per saperlo. Ma la più immediata cartina al tornasole potrebbe essere proprio il modo in cui il governo sta interpretando gli impegni pro-concorrenziali presi nel Pnrr, a partire dal decreto legislativo sui servizi pubblici locali appena approvato. Perché è così importante questa riforma?

I servizi pubblici locali rappresentano una delle ultime sacche di gestione pubblica di servizi privatizzabili: ancora nel 2019, secondo la Corte dei conti, quelli diretti rappresentavano il 93 per cento degli affidamenti di servizi pubblici locali. Le gare con impresa terza erano solo 878 su un totale di 14.626 affidamenti e gli affidamenti a società mista, con gara a doppio oggetto, erano 178. Non c’è motivo di credere che in questi due anni di crisi pandemica ed economica le cose siano cambiate (anzi).

Si potrebbe obiettare che la netta predominanza dell’affidamento diretto non implica di per sé inefficienza o cattiva gestione del denaro pubblico. Ma nei fatti le sacche di inefficienza ci sono ed emergono da qualunque indagine: nel trasporto pubblico, per dirne una, i costi di produzione sono tra il 30 e il 50 per cento superiori alle best practice europee. A ogni modo, la riforma dei servizi pubblici non riguarda tanto la loro “privatizzazione”, quanto piuttosto la liberalizzazione nell’aggiudicazione del servizio, troppo spesso affidata in via diretta in spregio ai principi dell’efficienza e della trasparenza.

La riforma fa parte del pacchetto previsto dal Pnrr. Difatti, la condizione per l’erogazione degli aiuti è subordinata anche all’esito positivo di quelle riforme delle infrastrutture immateriali di tutto il paese, a partire dalla formazione della Pa fino alla giustizia e alle norme sulla concorrenza, che sono da anni additate dalle stesse istituzioni europee come il passaggio necessario per una maggiore competitività del paese.

La concorrenza per il centrodestra è un tema spinosissimo. Non solo nell’ultimo ventennio i partiti di destra, sempre pronti a dimostrarsi pro business, hanno avuto poche occasioni di dimostrarsi pro market: soprattutto negli ultimi anni si sono schierati in modo sempre più esplicito a difesa delle rendite. Non si tratta solo delle barricate su stabilimenti balneari e tassisti. Non c’è ordine professionale che non abbia trovato nella coalizione teoricamente “liberale” orecchie attentissime; non c’è operatore tradizionale che non abbia trovato ascolto e consolazione contro le più efficienti piattaforme online; non c’è monopolista pubblico locale (!) che non abbia visto il centrodestra scendere compattamente in sua difesa (con tanti saluti alla signora Thatcher).

Negli ultimi programmi elettorali di Fratelli d’Italia e Lega, nonché nell’accordo dell’intera coalizione, il termine compare solo in contesti e punti in cui ha una connotazione negativa, come necessità di tutelare le aziende italiane dalla concorrenza che, naturalmente, è sempre “sleale”. In quello di Forza Italia non viene proprio citata.

La riforma dei servizi pubblici locali non è rivoluzionaria e raccoglie in molti punti lo stato di avanzamento della giurisprudenza. Tocca tuttavia il motivo principale per cui il capitalismo municipale è ancora così saldo, nel prevedere maggiore trasparenza nelle modalità di affidamento e soprattutto nell’imporre quello che gli enti locali e le altre amministrazioni affidanti si rifiutano di fare: giustificare le proprie scelte, specie quando intendono istituire un nuovo servizio pubblico o quando scelgono la strada dell’affidamento in house. L’obiettivo è di porre un argine all’abuso dell’affidamento diretto e mettere ordine a quel vasto cosmo di clientelismo locale che non trova pace da quando il referendum del 2011 (cosiddetto sull’acqua pubblica) ha fatto naufragare le riforme precedenti e ha di fatto pregiudicato quelle successive. I partiti di destra, che pure nel 2011 difendevano (in teoria) le ragioni della concorrenza, da allora si sono schierati sul fronte opposto, trainati dalla Lega e proprio da FDI. Adesso, è venuto il momento di scoprire le carte.

Nei giorni scorsi, il governo ha mostrato forti difficoltà nel portare a casa la riforma. Forti sono state le obiezioni e le resistenze in particolare della Lega, emerse invero anche col precedente esecutivo. Meloni e Fitto tuttavia hanno tenuto duro e il Consiglio dei ministri ha definitivamente approvato il testo. Naturalmente, questo è necessario ma non sufficiente. Intanto, bisogna che le nuove prescrizioni non restino sulla carta ma siano concretamente applicate. Il via libera al decreto è comunque un segnale da interpretare per tre buone ragioni.

La prima è, ovviamente, politica. La legge di Bilancio varata poche settimane fa tradisce la tensione di Giorgia Meloni nel tenere assieme due spinte opposte: quella a conquistare la credibilità presso i partner europei; e quella a mantenere gli impegni presi in campagna elettorale. Così, a Bruxelles si è consegnata una manovra tutto sommato conservativa, che non compromette gli equilibri di bilancio né contiene provocazioni gratuite (ricordate le polemiche sul deficit all’epoca del Conte gialloverde?). Tuttavia, nel medio termine non si può continuare a tenere il piede in due scarpe.

In secondo luogo è verosimile che un governo giovane, anagraficamente e politicamente, voglia avere prospettive di tenuta. Riuscirci, tuttavia, dipende anche dalla performance economica del paese. Da trent’anni, l’Italia soffre una drammatica stagnazione della produttività, che ne ha fatto la nazione europea con la crescita cumulata più bassa e una dinamica dei salari altrettanto fiacca, se non addirittura decrescente. Se la premier vuole stimolare la crescita nel prossimo quinquennio, al di là del rimbalzo post Covid che si sta ormai esaurendo, deve avere il coraggio di esorcizzare la sua stessa retorica passata, oltre agli interessi particolari e alle tare culturali che finora hanno impedito le riforme.

Infine, e più prosaicamente, Meloni ha scommesso esplicitamente sul Pnrr quale veicolo di finanziamenti e viatico di rispettabilità europea. Palazzo Chigi non perde occasione di sottolineare (giustamente) che molte previsioni di spesa sono ormai superate, a causa dell’inflazione. Su questo Bruxelles ha già fatto aperture e vi sono senza dubbio spazi di revisione dei programmi di investimento. La condizione perché il negoziato arrivi a una soluzione favorevole non dipende esclusivamente dalla ragionevolezza delle richieste: dipende anche, e soprattutto, dalla capacità del governo di tenere il passo delle riforme. I partiti di centrodestra devono decidere, con trasparenza e serietà, se sono disposti a rinunciare ai fondi europei nel nome della coerenza; o se, invece, preferiscono sacrificare la purezza di posizioni spesso strumentali nel nome dell’interesse generale a portare a casa i denari europei e contribuire così alla ripresa economica. E deve deciderlo soprattutto Giorgia Meloni, visto che l’esito della sua esperienza da premier è in gran parte legato a come giocherà questa partita.

Portare a casa i decreti attuativi della legge 2021, ma anche il disegno di legge 2022 in tempo per approvare i relativi atti attuativi entro il 2023, presuppone abbandonare l’idea protezionistica e interventista della politica economica che ha fin qui caratterizzato la destra italiana. Tutto ciò sembra risuonare con l’auspicio meloniano a “non disturbare” le imprese (che a noi piace tradurre con laissez faire e a cui sarebbe bello che la destra aggiungesse anche laissez passer). Ma c’è un aspetto non banale: “lasciar fare” non significa solo rimuovere gli impicci burocratici o tagliare le tasse (entrambi propositi nobili e necessari). Significa rimuovere le protezioni eccessive, perché le imprese non possono crescere, innovare e creare ricchezza e occupazione se sono frenate e limitate – ma anche se viene impedito di fallire alle imprese che non reggono il passo dei mercati e dei concorrenti più efficienti.

Oltre ai servizi pubblici locali, restano da attuare anche altre disposizioni della legge annuale per la concorrenza 2021. Per esempio, il ministero dell’ambiente e della Sicurezza energetica dovrà intervenire sulla disciplina delle gare per le reti di distribuzione locale del gas, da troppi anni tenute in sospeso da una normativa in parte obsoleta, le resistenze degli enti locali e gli inevitabili ricorsi. Un altro tema rilevante è la liberalizzazione dei mercati finali della vendita di elettricità e gas, che da troppi anni viene rimandata e che mai come oggi darebbe un impulso al mercato e uno strumento di effettiva tutela ai consumatori. E poi, come detto, ci sarà da redigere la prossima legge per la concorrenza.

E’ presto quindi per dire che volto avrà la destra italiana, anche riguardo alla concorrenza, che è uno dei principali banchi di prova attraverso cui Giorgia Meloni può dirci come intende declinare il suo mandato. Il “vincolo esterno” del Pnrr può agire, a seconda di come la premier sceglierà di indirizzare l’attività di governo, da limite o da pungolo: è puramente politica, e non tecnica, la decisione del contenuto dei provvedimenti per la concorrenza ed è soprattutto politico il giudizio su di essi, se cioè siano un prezzo da pagare per ottenere i fondi europei o un’occasione da cavalcare per dare freschezza all’economia di un paese che respira un’aria ancora stantia. Diceva Margaret Thatcher: “Non sono una politica che insegue il consenso; sono una politica che insegue le convinzioni”. Scopriremo nei prossimi mesi se Giorgia Meloni insegue il consenso o le convinzioni; e, soprattutto, quali convinzioni. Per ora, la continuità col precedente esecutivo sulla riforma dei servizi pubblici locali fa sperare in una genuina volontà di aderire ai principi concorrenziali che anche l’Unione europea ci chiede.

da Il Foglio, 19 dicembre 2022

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