“Diritti” e “dignità” sono spesso parole abusate. A pochi giorni di distanza dallo sciopero di venerdì scorso «dei e dai generi» per praticare «a liberazione di tutte le soggettività» (così dall’appello del collettivo patrocinatore dello sciopero dell’8 marzo), la realtà ci riporta coi piedi per terra.
Nasrin Sotudeh è una coraggiosa e pacata avvocato iraniana da anni perseguitata dalla giustizia del suo paese per la sua attività professionale in difesa dei diritti umani. Già arrestata a seguito di una condanna in contumacia per crimini contro la sicurezza dello Stato per aver difeso attivisti dell’opposizione dopo le elezioni presidenziali del 2009, le è stata ora inflitta una pena a complessivi 38 anni di carcere e 148 frustate in due distinti processi per collusione contro la sicurezza nazionale, propaganda anti-governativa, istigazione alla corruzione e alla prostituzione e comparizione in pubblico senza hijab.
Capire quali fatti siano alla base dell’accusa è un diritto fondamentale nel nostro paese e nelle democrazie liberali come la nostra, ma non è necessariamente così ovunque. Quel che è certo, è che Nasrin Sotoudeh è un avvocato che per vocazione e professione ha sfidato le regole e i costumi del suo paese, col coraggio di restarvi a vivere, difendendo tra gli altri donne accusate di essersi tolte il velo e denunciando da ultimo una recente modifica della legislazione penale che impone agli imputati di reati contro la sicurezza nazionale di essere difesi da avvocati di Stato, senza possibilità di un patrocinatore di fiducia.
Nonostante l’opacità della ‘giustizia’ iraniana (la stessa agenzia di stampa nazionale ha diffuso una pena diversa da quella comunicata dal marito e dalle ONG internazionali), sappiamo dunque per certo che la gravissima colpa di Sotoudeh è stata quella di aver difeso soggetti vulnerabili e di aver manifestato le proprie opinioni. Attività che, nella nostra parte di mondo, quotidianamente compiamo con una libertà tale da darla per scontata.
La condanna di Sotoudeh, in particolare la ripugnante pena alla frusta, dovrebbe ricordare ai facili paladini dei diritti cosa voglia dire violare la libertà e la dignità.
Non è per far polemica che abbiamo giustapposto la manifestazione italiana per i “diritti negati” al coraggio di chi vive e combatte in un Paese in cui quei diritti li ha persi davvero. Se lo facciamo, è solo perché la pena inflitta all’avvocato Sotoudeh ci riporta implacabile alla loro essenza.
In un sistema giudiziario che condanna una persona a 148 frustrate, a quella persona sono state negate la libertà e la dignità personale. Le quali sono parole importanti, che andrebbero usate con serietà. Perché la loro negazione è una faccenda tremendamente seria.
14 marzo 2019