30 Aprile 2014
Il Foglio
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Cosa sappiamo veramente della distribuzione della ricchezza e della sua evoluzione nel lungo termine? La domanda con cui si apre Capital in the Twenty-First Century di Thomas Piketty è sia retorica che no. È retorica, perché lascia intendere che no, non ne sappiamo granché, ma sì, chi arriverà in fondo alle quasi 700 pagine potrà farsene un’idea. Ma è anche genuina: che cosa sappiamo, che cosa possiamo sapere, e a cosa serve saperne di più?
Nello svolgere le sue tesi, il librone segue almeno tre filoni: racconta i risultati di un impressionante lavoro empirico; muove un attacco feroce agli economisti e al loro modo di leggere il mondo; porta avanti una chiave di lettura politica. Questi tre filoni meritano di essere separati l’uno dagli altri, sia per spiegare le ragioni del successo mondiale di un volume né semplice né agile (ancorché di lettura gradevole), sia per distinguere il contributo dell’economista Dr Piketty dall’agenda del “politico” Mr Thomas.
La ricerca contenuta in Capital in the Twenty-First Century è senza precedenti (per estensione geografica e ampiezza temporale), lo sforzo di raccogliere e armonizzare informazioni eterogenee vale da solo il prezzo del volume (37,87 euro). Il libro ricostruisce l’andamento di redditi e ricchezza in diversi paesi, cercando di estrapolare sia verso altre realtà geografiche, sia verso il futuro. La distribuzione della ricchezza è un tema sfuggente: gli economisti classici vi si erano misurati armati solo della logica e di osservazioni aneddottiche (che lo stesso Piketty deriva dai grandi romanzi dell’Ottocento). Gli economisti più recenti si sono tutti trovati, per così dire, schiavi involontari di Simon Kuznets il principale obiettivo polemico di Piketty il quale, se per un verso aveva compiuto la prima indagine sistematica sulla questione, per l’altro aveva donato al mondo la visione ottimistica sottesa alla curva che porta il suo nome. La “Kuznets curve” mostra che la diseguaglianza cresce durante le prime fasi dello sviluppo economico, ma poi, raggiunto un punto di massimo, tende a ridursi.
Quindi, per quanto essa possa essere fonte di preoccupazioni e disagio sociale nel breve termine, fondamentalmente non è un problema nel lungo. Piketty mette sotto schiaffo questa visione: a suo avviso Kuznets paga pegno alle peculiarità irripetibili del momento in cui scrive (gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento): “La pesante riduzione della diseguaglianza tra il 1914 e il 1945 era principalmente dovuta alle guerre mondiali e ai conseguenti choc economici e politici (specialmente per gli individui con grandi fortune). Aveva poco a che fare col tranquillo processo di mobilità intersettoriale descritto da Kuznets”. In più, dice Piketty, la sua teoria “era un prodotto della Guerra fredda”: faceva ideologicamente comodo, e pertanto si impose rapidamente (lo studioso francese è probabilmente ingiusto verso il premio Nobel, ma questo è un altro discorso).
Nei decenni successivi, comunque, la diseguaglianza riprese a crescere, come è ben documentato da Piketty, il quale almeno per alcuni paesi, in particolare Regno Unito e Francia riesce pure a mettere questo fenomeno in una prospettiva secolare o più. Spiegarne le determinanti è complesso, e per farlo sarà necessario mobilitare l’intero armamentario statistico di cui dispongono gli economisti, nutrendo i loro modelli con questi nuovi dati. Ma è proprio qui che il Dr Piketty “empirico” cede il passo al Mr Thomas “iconoclasta”. “La disciplina economica attacca deve ancora superare la sua passione infantile per la matematica e per la speculazione puramente teorica e spesso altamente ideologica, a spese della ricerca storica e della collaborazione con le altre scienze sociali”. Può esserci un grano di verità: la diseguaglianza si colloca su un crinale troppo storico per gli economisti, e troppo economico per gli storici, e pertanto è talvolta finita in una sorta di cono d’ombra disciplinare. Ma l’impressione è che la polemica contro l’economia intesa come metodo finisca per essere funzionale a una lettura, essa sì, ideologica. Che si riassume in un’equazione: “r > g”, ossia il tasso di rendimento del capitale (r) è e secondo Piketty sarà sistematicamente superiore al tasso di crescita dell’economia (g). In altre parole, i possessori del “capitale” vedranno sempre, in media, la loro “roba” crescere più rapidamente del resto della società, in una spirale di progressiva concentrazione della ricchezza, proprio come prevedevano (in modo e per ragioni diverse) David Ricardo e Karl Marx.
Poiché la crescita delle diseguaglianze alla lunga insostenibile, prosegue Mr Thomas, essa deve essere corretta, per esempio attraverso un’imposta globale e progressiva sui patrimoni. Tale intervento non ha natura tecnica ma strettamente politica: infatti, secondo l’autore, non si tratta di correggere un fallimento del mercato, ma è proprio il buon funzionamento del “capitalismo” a produrre conseguenze indesiderabili sul versante della diseguaglianza e delle sue implicazioni sociali. L’argomento è tanto apparentemente lineare quanto difficilmente sostenibile. In primo luogo, non è necessariamente vero che “r” debba essere sempre e comunque maggiore di “g”. Il rendimento del capitale non è la stessa cosa della crescita della ricchezza: Piketty ha un’idea dei ricchi “alla Zío Paperone”, ímpegnatí ad accumulare e basta. Ma nel mondo reale i ricchi consumano una quota rilevante delle loro ricchezze: non girano con cappa sgualcita e ghette vecchie, ma, come ha notato Garrett Jones, sfoggiano i loro yacht, le ville, le Ferrari. Spesso sperperano le loro stesse fortune. Per giunta, il “capitale” non è uno stock omogeneo, ma un paniere diversificato di titoli. Questa semplificazione porta a travisare il senso stesso della “r” nella diseguaglianza di Piketty: il ritorno su un investimento riflette tipicamente la remunerazione di un rischio. Il rischio, e la propensione ad assumerselo, è l’elefante nella stanza con cui Capital in the Twenty-First Century non fa i conti.
Inoltre, il Dr Piketty riconosce (ma Mr Thomas dimentica) che il “capitalismo” contiene potenti forze che spingono sia verso una maggiore diseguaglianza, sia nella direzione opposta. In particolare “la diffusione di conoscenza e abilità (skill) è la chiave per la crescita complessiva della produttività e la riduzione della diseguaglianza tra i paesi e all’interno di essi”. Ma la conoscenza è il portato della crescita economica: di fronte al progresso, i “poveri” non sono necessariamente più disarmati dei “ricchi”, né questi ultimi sono in grado di “battere” il mercato (cioè ottenere un ritorno sugli investimenti sistematicamente superiore alla media) moltiplicando indefinitamente le proprie ricchezze. Piketty cita una letteratura sterminata, ma non prova interesse né per Friedrich Hayek né per Eugene Fama, e si vede. In tal modo, dal libro finiscono per essere pressoché assenti due considerazioni invece centrali: primo, lo spiazzamento del lavoro da parte del capitale vuole anche dire che, per soddisfare le nostre esigenze di consumo, dobbiamo faticare sempre meno; secondo, le diseguaglianze saranno pure cresciute, ma la situazione dei poveri cioè il paniere di beni e servizi che, col loro reddito, sono in grado di consumare è indubbiamente migliorata. Curiosamente, insomma, Piketty mette a fuoco la faccia nascosta della luna (la diseguaglianza) ma nel farlo perde di vista quella più nota ed esplorata (la crescita). Sicché arriva a proporre, come soluzione del suo dilemma politico, una misura una specie di patrimoniale progressiva mondiale che non solo appare del tutto impraticabile, ma che avrebbe l’effetto paradossale di minare la crescita e segare con essa il ramo su cui siede l’uguaglianza. Questa miopia tradisce l’abbandono del terreno dell’economia per muoversi su quello della politica.
La spiccia recensione dí Greg Mankiw rende perfettamente l’idea e dovrebbe essere riportata sulla copertina di Piketty a mo’ di disclaimer, come gli avvisi sui pacchetti di sigarette: “Potete apprezzare la sua storia economica senza prendere per buone le sue previsioni. E se anche siete convinti delle sue previsioni, non dovete necessariamente prendere per buone le sue conclusioni normative”.
Da Il Foglio, 30 aprile 214
Twitter @CarloStagnaro