Dominare il futuro digitale

Nessuno potrà chiamarsi fuori dalla grande rivoluzione tecnologica che sta mettendo in crisi il sistema tradizionale

2 Novembre 2017

Il Foglio

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

All’inizio degli anni Trenta, più del 40 per cento dei trust industriali americani fondati tra il 1988 e il 1905 era fallito, e quelli sopravvissuti erano diventati molto più piccoli. Certo, anche in conseguenza della politica antitrust di Teddy Roosevelt, ma soprattutto a causa dello shock della seconda rivoluzione industriale: ad avere il sopravvento furono le aziende per cui i motori elettrici furono non solo i sostituti di quelli a vapore, ma l’occasione per riprogettare i processi produttivi.

E’ quello che sta succedendo oggi con la rivoluzione della ICT, Information Communication Technology, solo su scala immensamente maggiore: nessuna industria potrà chiamarsi fuori. Per non fare la fine di chi non usò l’elettrificazione per cambiare il modo di produrre, per “governare il nostro futuro digitale”, bisogna aver chiaro quali sono i driver dell’innovazione che mettono in crisi l’organizzazione tradizionale. In Come governare il nostro futuro digitale. Macchine, piattaforme, masse (Norton, 2017) McAfee e Brynjolfsson ne individuano tre: le macchine, cioè l’immensa capacità di calcolo; le piattaforme, cioè l’economia dei bit; la massa (crowd), cioè la quantità di conoscenze, competenze ed entusiasmi distribuiti nel mondo e disponibili online. Altrettante sono le sfide per l’impresa: cambiare i processi, facendo lavorare insieme uomini e macchine; trasformare l’offerta, mettendo insieme prodotti e piattaforme; modificare il modo di lavorare delle organizzazioni, traendo profitto dell’interazione tra crowd e core, tra la massa esterna e il nucleo centrale all’impresa. Che ne sarà della società per azioni, strumento base del moderno capitalismo? Che cosa di coloro che ci lavorano?

Questi gli interrogativi a cui gli autori ritornano alla fine, dopo 300 pagine per illustrare il potere dirompente delle nuove tecnologie, un questionario a conclusione di ogni capitolo per stimolare iniziative: perché questo non è un libro sulle imprese dell’economia digitale, ma per le imprese nell’economia digitale.

E questa di conseguenza non è una recensione, ma un’esposizione dei loro suggerimenti.

La mente e la macchina
Sono ormai vent’anni che nelle imprese vige una divisione del lavoro, per cui le macchine fanno le operazioni matematiche, archiviano i dati e li trasmettono. Eppure è dimostrato che le decisioni e le previsioni basate su dati e algoritmi sono migliori di quelle basate sul giudizio anche di persone competenti. Conviene quindi rovesciare la pratica standard: invece di chiedere alle macchine di fornire dati come input per il giudizio umano, usarlo come input per l’algoritmo. Ci sono questioni logiche ed etiche complesse (hanno più pregiudizi gli algoritmi o gli uomini?) ma sempre più funzioni (selezioni per l’assunzione, assegnazione di crediti) vengono svolte dalle macchine.

E’ come apprendere una lingua: si può farlo come i bambini, imparando da chi gli parla e li corregge quando sbagliano, cioè trovano le regole in modo statistico; oppure come gli adulti, memorizzando le parole, e imparando una serie complicata di regole. Questo secondo modo è quello che è stato seguito per il riconoscimento vocale, la classificazione delle immagini, la traduzione automatica: i risultati ottenuti non sono incoraggianti. La ragione è riconducibile al paradosso di Polanyi, secondo cui noi conosciamo molte più cose di quelle che sappiamo dire: se neppure noi sappiamo dire quali regole o procedure usiamo per fare le cose giuste senza sforzo e senza ragionarci sopra, come potremo insegnarle a un computer?

Lo sviluppo della AI (intelligenza Artificiale) segue un’altra strada, resa possibile dalla crescita esponenziale della capacità di calcolo dovuto alla legge di Moore, e dalla riduzione del costo di investimento iniziale grazie al cloud computing. Big data l’esplosione di testi, suoni, video, segnali di sensori consente alla macchina di apprendere alla maniera dei bambini, dalla quantità di dati e di calcolo, prima con la supervisione di un umano, ma sempre di più senza. Anche gli uomini sbagliano: è per questo che Google ha scelto di lavorare su vetture totalmente senza assistenza umana. In molti lavori (il back office di una banca, le richieste di rimborsi da un’assicurazione) il difficile non è eseguire il lavoro, ma capire che cosa vuole il cliente. Anche in questo l’approccio statistico del deep learning sta superando i limiti dell’approccio tradizionale basato sulle regole: tanto che si dice che ad ogni linguista licenziato la performance della macchina migliora.

Quando il mondo dei bit viene in contatto fisico con il mondo degli atomi, di cui siamo fatti noi e le cose che usiamo, i risultati non sono scontati: ad esempio i Bancomat De La Rueche dal 1967, in 10 anni negli USA hanno sostituito l’80 per cento degli sportelli; mentre le casse automatiche nei supermercati, una tecnologia lenta e confusa, sono state un flop.

Il mondo dei bit non solo interagisce col mondo degli atomi ma consente letteralmente di disporre un atomo dopo l’altro: è la costruzione additiva. Le stampanti 3D fabbricano oggetti, in plastica ma anche in leghe metalliche: senza bisogno di stampi, senza preoccuparsi dei sotto squadra, anche un pezzo per volta. La possibilità di prototipare tutto a basso costo apre spazi all’innovazione: dal bit, all’atomo, al bit.

E noi, qual è il nostro spazio? Quello della fantasia e della creatività? Certo, anche se sistemi di progettazione automatica avanzano pure in quel campo. A essere insostituibili sono le nostre facoltà di esseri sociali, la compassione, l’orgoglio, la giustizia, la solidarietà.

I computer sapranno fare una diagnosi meglio del medico, ma i malati vorranno sempre avere una persona di fianco a loro per accettarne il verdetto.

Il prodotto e la piattaforma

Nel 2012, pochi mesi prima che Facebook comprasse Instagram, Kodak dichiarò fallimento: era stata fondata 132 anni prima. Nel 2013 la pubblicità sui giornali americani era diminuita del 70 per cento rispetto a 10 anni prima. Tra i11999 e i 20141e vendite di musica registrata sono diminuite nel mondo intero del 45 per cento. Il 2007 è il primo anno in cui negli Stati Uniti non si è aperto un nuovo grande magazzino. Nel 2015 il 44 per cento degli adulti negli Stati Uniti vivono in case senza connessione telefonica fissa (e oltre il 60 per cento tra i millennial). C’è una ragione logica dietro fatti così distruttivi: sta nella natura dell’economia dei beni di informazione unita a quella delle reti. I beni di informazione hanno due caratteristiche importanti: sono gratuiti – il costo di riproduzione è praticamente nullo – e sono perfette – ogni copia è assolutamente identica all’originale. Le reti aggiungono una terza caratteristica: sono istantaneamente disponibili ovunque.

Le piattaforme sono l’ambiente digitale caratterizzato da costi marginali di accesso, di riproduzione, di distribuzione prossimi allo zero: sono cioè lo strumento dell’economia del gratuito-perfetto-istantaneo. Internet è una piattaforma, anzi è la piattaforma delle piattaforme: su quel protocollo di comunicazione si è costruito il World Wide Web.

La prima generazione di piattaforme riguardava le industrie dell’informazione, in modo particolare la musica: ridurre ciò che si deve comprare (da tutto un cd a un solo brano) e aumentare ciò da cui si può scegliere. La seconda generazione si sta diffondendo nel resto dell’economia, gli autori la chiamano O2O, cche sta per online to offline: oltre alle varie Uber, Lyft, Airbnb, Deliveroo, Foodora, che si rivolgono agli individui, ci son piattaforme per le aziende: per ridurre l’inefficienza dei ritorni a vuoto nei trasporti su ruota, per offrire spazi di magazzino inutilizzati, per offrire proposte di professionisti freelance, per trovare luoghi per eventi e conferenze o soggetti per focus group. Sono la più interessante combinazione dell’economia dei bit con l’economia degli atomi: nel trattare un grande volume di dati, le richieste e le disponibilità, avvicinano l’ideale del gratuito-perfetto-istantaneo – proprio nel mondo dei bit; ma offrono anche mezzi per risolvere i problemi del mondo degli atomi, cioè la disponibilità limitata dei mezzi e la deperibilità degli asset. Soprattutto risolvono il problema della liquidità, perché assicurano che la transazione avverrà senza cambiamenti di prezzo: il turista a Giacarta, il camionista che non vuole fare ritorno a vuoto, lo studente che vuole andare da Bordeaux a Lione spendendo poco, tutti sanno che la transazione avverrà rapidamente e senza spiacevoli sorprese.

Le piattaforme modificano i mercati in cui operano, non è detto che li distruggano. Molti alberghi crescono anche in presenza di Air-bnb; questa ha avuto un fortissimo impatto sul business di viaggiare da una città all’altra, non sul business di stare in una città.

Ha creato un nuovo mercato, quello di persone che vogliono qualcosa di diverso, oltre che più a buon mercato, di quanto offerto dagli alberghi. Quando i servizi sono differenziati e i clienti possono essere fidelizzati a uno specifico marchio, l’effetto delle piattaforme è minore. Non c’è spazio per loro quando i fornitori sono pochi e il prodotto è complicato: la progettazione di una centrale nucleare, la pianificazione fiscale di una complessa fusione aziendale, la messinscena di un’opera lirica continueranno ad essere eseguite come in passato.

Il nucleo e la massa
L’idea base della biblioteca è avere la collezione più completa possibile di saperi, che la gente possa consultare e così diventare più colta (e forse più saggia): è l’esempio tipico del sapere concepito come nucleo, centro, core. Ma esiste anche un tipo alternativo di collezione, quello di saperi parcellizzati, che provengono da diversi tipi di persone e da diverse parti del mondo: è il sapere della massa, della folla, della gente, del crowd. Questo è il web: un’immensa biblioteca prodotta dalla massa, resa possibile dall’economia dei bit, e quindi gratuita, perfetta, istantanea.

E più grande: si stima che nella storia dell’umanità si siano prodotti 130 milioni di libri, 30 milioni dei quali si trovano nella più grande biblioteca, quella del Congresso a Washington D.C.. Con i 25 milioni di libri scannerizzati da Google e da altri, la parte del web accessibile con i motori di ricerca ammontava nel 2015 a 45 miliardi di pagine. Mentre le biblioteche sono tutte in qualche modo specializzate, sul web si trova di tutto, testi, musica, immagini: solo su YouTube ci sono 30 milioni di video, molti di più su Facebook. Mentre il nucleo ha controlli governativi, procedure di approvazione, nella massa non c’è nessun “incaricato”.

Il risultato di questa mancanza di gerarchia è che la massa è deliberatamente incontrollata e decentralizzata: presenta i vantaggi della libertà di espressione e della spinta all’innovazione, e due problemi. Il primo che, come disse il matematico John Alen Paulos, “Internet è la più grande biblioteca del mondo: solo che tutti i libri sono per terra”. Il secondo che inevitabilmente è aperto anche a malefatte – odio, insulti, atti criminali – compiuti al riparo di un falso indirizzo IP. Il primo problema l’ha risolto PageRank, l’algoritmo di Larry Page e Sergey Brin, basato sull’intuizione che la pagina “migliore” è quella che è connessa con il maggior numero di altre pagine, e che quindi il numero dei link non può essere usato per ordinarli in un indice. Su quell’idea fondano Google, e cambia il mondo: il contenuto della massa online resta incontrollato ma non è più disorganizzato, la sua struttura emerge dal contenuto stesso. Quanto al secondo problema, è angosciante ma non fatale, anche grazie ai potenti strumenti di ricerca che consentono alla massa di crescere senza essere sabotata dai suoi membri peggiori.

Le collezioni prodotte dalla massa hanno la peculiarità che, accumulando i contributi di tanti generano un’altra forma di conoscenza: è la magia dei mercati descritta da Friedrich von Hayek. Era il 1945 e c’era chi pensava che le economie di piano, in cui un nucleo centrale distribuisce beni e servizi, potessero funzionare meglio delle economie di mercato: Hayek dimostrò che avevano torto.

“La meraviglia del sistema dei prezzi, scriveva, è che in un caso come quello della scarsità di una materia prima, senza che nessun ordine sia stato emesso, senza che più di una manciata di persone ne sappia la causa, decina di migliaia di persone … sono indotte a usare quel materiale con maggior parsimonia. Se il sistema dei prezzi fosse il risultato di un deliberato progetto umano … questo meccanismo sarebbe acclamato come uno dei maggiori trionfi della mente umana.”

La storia di Wikipedia fornisce la prova, in negativo, di quanto delicato sia il meccanismo di attivazione di questi meccanismi. Il progetto iniziale di costruire una biblioteca libera, aperta, accessibile online, che facesse leva sullo spirito di volontarismo, si chiamava Nupedia: però accettava solo contributori esperti, possibilmente con un PhD. Risultato: dopo 18 mesi e 250.000 dollari c’erano solo 12 articoli finiti e 250 in bozza. Nel 2001 decisero di cambiare, sia il nome sia le regole: chiunque avrebbe potuto mandare un articolo. In 15 giorni c’erano 617 articoli, in un anno 19.000, in dieci erano 636 milioni in 291 lingue. Wikipedia aveva abbandonato il principio di richiedere credenziali, e adottato i principi di apertura, di auto-organizzazione, e, per evitare il caos, di verificabilità da parte dell’utente dell’affidabilità della fonte.

Perché capita così sovente che la massa (crowd) batta il nucleo (core)? La conoscenza è creata continuamente in tutte le discipline, ed entra lentamente nel nucleo: mentre lo specialista fatica a restare aggiornato in campi estranei al suo, nella massa invece ci sarà sempre qualcuno in un campo limitrofo che, senza sforzo, può dare un contributo.

E’ successo nel sequenziare il genoma, nello sviluppare l’A.I. superando il paradosso di Polanyi: la soluzione di problemi complessi arrivava sovente affrontandoli da diverse prospettive, una cosa quasi impossibile per il nucleo, facile per definizione per la massa. Il valore della massa sta nel suo essere enormemente marginale, formata da un gran numero di persone intelligenti, colte, tenaci, motivate, distanti in tutti i sensi del termine.

Alcune organizzazioni cercano di reagire mettendo insieme nucleo e massa. Ad esempio crowdfunding potrebbe diventare un nuovo modo per mettere un prodotto sul mercato spinti dal lato dell’offerta: un sistema costoso, prima di sapere se il mercato lo gradisce o no si sono già spese somme a volte ingentissime. Il crowdfunding è tutto il contrario: si raccoglie capitale finanziario a mezzo di capitale sociale, e da costo che era, la ricerca diventa un’opportunità di prevendita e di conquista di clienti.

E poi c’è il movimento dei maker: sono dilettanti, fabbricanti a tempo perso, ingegneri, scienziati; condividono istruzioni, disegni, schemi di circuiti elettronici, file per stampanti 3D; possono servire a fare go cart a guida automatica o contatori Geiger. Oppure mani artificiali a basso costo. La massa diventa sempre più grande, più intelligente, più ricca di voci. La prospettiva di portare miliardi di intelligenze umane in questa comunità globalmente connessa appare ai nostri due autori ancora più eccitante di quanto siano i futuri sviluppi dell’intelligenza artificiale. Al recensore invece questo fa venire in mente, a contrario, Mariana Mazzucato e la sua crociata per lo stato innovatore, e gli provoca una sensazione di straniamento e di stupore. Straniamento perché a fronte di quello che l’economia del web produce specificamente nel processo innovativo, quella tesi sembra provenire da un’altra era geologica. E stupore che a non accorgersene sia una persona di formazione e professione tali che solo chiudendo volontariamente ambo gli occhi può non accorgersi di quello che sta succedendo ed è già successo, mentre lei continua ad andare in giro a propalare le sue giurassiche fantasie.

E infine le transazioni finanziarie: perché quelle online devono coinvolgere le banche e non essere come i pagamenti nel mondo fisico dei biglietti di carta, cioè senza costi aggiuntivi e preservando l’anonimato?

Da questo interrogativo è nato il bitcoin: il suo modo di funzionare, il suo successo sul mercato, le sue vicende interne, i suoi concorrenti, la (per ora remota) possibilità che sostituisca le fiat money emesse dalle banche centrali meritano un libro (e una recensione) a parte. Ai fini di questo libro (cioè cosa succede alle società per azioni) l’interrogativo è leggermente diverso: più che i bitcoin, la vera innovazione potrebbe essere la blockchain, il sistema completamente decentralizzato, non governato da nessuno, che consente di registrare transazioni in modo apparentemente immutabile.

Se è così, perché limitarne l’uso al denaro? Con la blockchain si potrebbero registrare trasferimenti di proprietà, emissioni di azioni, condizioni di affitto di un ufficio: un sistema di registrazioni globale, trasparente, immutabile, accessibile senza costi di entrata o transazione, creato da persone e imprese che agiscono nel proprio interesse, e che per stare insieme hanno bisogno solo di un po’ di comunicazione, di molta matematica e molto software. Una piattaforma per eseguire transazioni in modo automatico e senza supervisione o benedizione di un’autorità centrale potrebbe perfino cambiare il modo in cui la ricchezza è creata e distribuita.

Dall’economia digitale alle imprese. E a noi
Dopo 300 pagine si ritorna al tema iniziale. Le società per azioni sono il nucleo del capitalismo moderno: ma sovente la massa con l’aiuto delle tecnologie può battere il nucleo. Le tecnologie radicalmente decentralizzate delle cryptocurrency, i registri distribuiti, i contratti smart, possono essere un’alternativa alle società? Sta per scoccare l’ora della loro fine? Movimenti anti-establishment esistono da tempo, adesso ad alimentarli ci cono state le disarticolazioni e il senso di ingiustizia seguiti alla Grande Recessione, e la lenta e diseguale ripresa che ne è seguita. Sono tanti a credere che delle società, soprattutto di quelle grandi, non ci si può fidare. Di qui l’idea di farne a meno, di decentralizzare ogni cosa: le stampanti 3D al posto delle grandi fabbriche con macchinari specializzati, le cryptocurrency e i contratti smart invece del servizi finanziari, il web per l’accesso alle informazioni e alla risorse educative. La tecnologia consente la decentralizzazione: ma la teoria economica cosa dice su come il progresso modifica le società e in generale come si organizza il lavoro? La risposta la diede Ronald Coase 80 anni fa con il suo “La Natura dell’Impresa”: questa esiste perché i costi di coordinamento tra gli individui al suo interno sono inferiori ai costi del loro esclusivo coordinamento sul mercato. Che cosa succede con le tecnologie digitali che, con i motori di ricerca, le reti di comunicazione globali, con le economie gratuite-perfette-istantanee dei beni di informazione, consentono di ridurre i costi di coordinamento?

In effetti molte società li hanno già ridotti, ricorrendo all’outsourcing, offshoring, freelancing. Eppure nonostante questo l’Economist, analizzando 893 industrie americane, trova che dal 1997 al 2012 la quota di mercato pesata delle quattro maggiori era aumentata dal 26 al 32 per cento. La ragione sta nel fatto che i contratti sono incompleti e che c’è qualcuno che ha i diritti residuali e che c’è qualcuno che ha i diritti residuali di controllo. Incompleti lo sono inevitabilmente, perché la nostra intelligenza è limitata: e quindi ci vuole qualcuno, il proprietario, col diritto di decidere sulla parte non prevista dai contratti. Le società sono un mezzo predefinito per determinare chi ha il diritto di esercitare il controllo e chi ne prende i ricavi. Anche gli strumenti più radicali di decentramento a un certo momento devono fare i conti con questa realtà: i contratti che tengono insieme la blockchain non specificano che cosa fare quanto il network dei miner si trova geograficamente concentrato in Cina, o quando i programmatori di bitcoin si dividono in due campi avversari. Né c’è da pensare che future tecnologie rendano possibile scrivere contratti completi. Se computer più veloci consentono a una parte di prevederne gli esiti, consentiranno alle altre parti di considerare possibilità più complesse.

Lo scopo di questo libro non è quello di esaltare, o discutere, o esecrare i risultati della tecnologia digitale. Tutt’altro nel fatto che i contratti sono incompleti e che c’è qualcuno che ha i diritti residuali di controllo. Incompleti lo sono inevitabilmente, perché il futuro non è conoscibile e perché la nostra intelligenza è limitata: e quindi ci vuole qualcuno, il proprietario, col diritto di decidere sulla parte non prevista dai contratti. Le società sono un mezzo predefinito per determinare chi ha il diritto di esercitare il controllo e chi ne prende i ricavi. Anche gli strumenti più radicali di decentramento a un certo momento devono fare i conti con questa realtà: i contratti che tengono insieme la blockchain non specificano che cosa fare quanto il network dei miner si trova geograficamente concentrato in Cina, o quando i programmatori di bitcoin si dividono in due campi avversari. Né c’è da pensare che future tecnologie rendano possibile scrivere contratti completi. Se computer più veloci consentono a una parte di prevederne gli esiti, consentiranno alle altre parti di considerare possibilità più complesse. Lo scopo di questo libro non è quello di esaltare, o discutere, o esecrare i risultati della tecnologia digitale: è rivolto alle imprese, e alla forma organizzativa, la società per azioni, che esiste da quattro secoli e che è stata uno strumento essenziale dello sviluppo capitalistico.

Lo sviluppo tecnologico mette alla prova le società. Quelle americane più importanti, quelle che fanno parte del listino S&P, hanno visto la loro vita media accorciarsi dai 60 anni nel 1960 a meno di 20 anni oggi. L’obbiettivo degli autori è di indicare i driver di cambiamento portati dalla tecnologia la macchina, la piattaforma, la massa – e come trarne vantaggi per evitare di fare la fine delle Kodak. Le società, è la conclusione, non sono una cosa del passato. Non solo, come si è visto, per l’impossibilità di scrivere contratti completi: ma anche perché, essendo previste per una vita lunga, sono adatte a progetti di lungo termine; e perché un sistema giuridico le rende lo strumento preferito per molti tipi di affari.

Restano le domande: le macchine provocheranno disoccupazione? Le piattaforme controlleranno tutte le nostre decisioni? Gli individui avranno meno libertà di decidere per se stessi e per la propria vita? Invece di chiederci che cosa ci farà la tecnologia, dobbiamo chiederci che cosa vogliamo con la tecnologia. L’era digitale impone nuovi e diversi equilibri, tra la mente e la macchina, tra i prodotti e le piattaforme, tra il nucleo e la massa. Ma non esiste un unico equilibrio ottimale. Apple e Google hanno avuto entrambi un enorme successo usando le piattaforme in modo diverso.

E non per caso: è che esistono più equilibri, ciascuno dei quali può avere successo duraturo. Come non esiste un unico equilibrio in un mercato, così non c’è nessun esito predeterminato alle tecnologie che vediamo dispiegarsi. Perché, come diceva Hayek, nessuna mente ha tutte le conoscenze necessarie per prendere decisioni nell’economia. Non saranno i governi a definire come la società userà la tecnologia, ma le decisioni di milioni di individui nella loro vita quotidiana. A seconda di come sono usati, macchine piattaforma masse possono avere conseguenze molto diverse. Possono concentrare il potere o distribuire la prosperità, aumentare la privacy o la trasparenza o entrambe, Possono creare lavori ricchi di motivazione o dominati da avidità e paura. Quella che i prossimi decenni siano i migliori che ha vissuto l’umanità resta comunque una possibilità reale.

Da Il Foglio, 2 novembre 2017

oggi, 21 Novembre 2024, il debito pubblico italiano ammonta a il debito pubblico oggi
0
    0
    Il tuo carrello
    Il tuo carrello è vuotoTorna al negozio
    Istituto Bruno Leoni