Quando, negli anni della contestazione, la sociologia si diffuse e si impose come una padrona nella cultura italiana, gli autori divenuti autorità erano quelli americani e quelli marxisti. Non senza ragione: Veblen e Parsons, Merton e Wright Mills hanno aperto anche da noi nuove strade; come Gramsci e Lukacs, Althusser e Agnes Heller. Purtroppo, la sociologia italiana fu dimenticata. Eppure, l’avevamo, e quale!
Una scuola invidiata all’estero e trascurata in patria. Essa ha enunciato un realismo sociologico che ha svelato i meccanismi e le tendenze di ogni società: l’inevitabile predominio di una élite e la sua sostituzione (Vilfredo Pareto), il carattere autoritario di ogni classe politica (Gaetano Mosca), la struttura centralista e leaderistica di tutti i partiti politici (Roberto Michels). Tutti nel solco di Machiavelli, per difendere la libertà sociale contro i miti e le utopie, come li ha chiamati James Burnham: The Machiavellians. Defensor of Freedom (1943).
Pareto fu scrittore non facile, spesso disarmonico, rugoso e anche bizzarro, leggere le sue opere è un compito piuttosto faticoso. Ma le acute intuizioni e analisi profonde sovrabbondano ad ogni pagina. Di lui tutto è stato pubblicato. Eppure, in libreria in questi giorni è arrivata una novità: L’ignoranza e il malgoverno. Lettere a «Liberty» (Liberilibri, pp. 216, euro 17). L’ha curata un noto studioso, Alberto Mingardi, Direttore dell’Istituto Bruno Leoni per lo studio e la diffusione delle idee liberali. Poco considerato in patria, Pareto era conosciuto negli Stati Uniti. Dove c’era molto interesse a sapere come andavano le cose nel nuovo Stato italiano. A Boston c’era una rivista, «Liberty», pubblicata da Benjamin Tucker, un anarchicoindividualista e pacifista (neither bullet, neither ballot; niente pallottole, niente scrutini) che, nel solco di Walt Whitman, si opponeva allo Stato monopolista e difendeva il libero pensiero e il libero amore (come peraltro Pareto).
Tucker gli chiese: come vanno le cose in Italia? E Pareto gli rispose con sei «Lettere dall’Italia», pubblicate tra il 1888 e il 1891. In quegli anni, l’ingegnere Pareto era direttore delle Ferrovie del Valdarno. Solo più tardi si darà all’insegnamento e pubblicherà i suoi grandi scritti scientifici: Corso di economia politica (1897), I sistemi socialisti (1902), Trattato di sociologia generale (1916). Sono gli anni dei governi Crispi, sui quali il giudizio di Pareto fu ultranegativo. Nella prima lettera egli critica le tendenze protezioniste del vecchio garibaldino, incapace di aprirsi alla rivoluzione industriale e alla economia di mercato. Aprendo le porte (seconda lettera) a tutti i pericoli di un regime di socialismo borghese gestito dallo Stato: «L’americano o l’inglese è consapevole dei suoi diritti innanzi allo Stato, l’italiano si sente in sua balia». Amico del grande meridionalista Maffeo Pantaleoni, Pareto dedica la terza e la quarta lettera al Sud, sottolineando come l’arretratezza del Meridione sia dovuta alla mancanza di una classe economica liberista: «industrie e commerci sono sempre mancati e la differenza fra le classi sociali è molto più marcata nel Sud che nel Nord d’Italia». Chi comanda nel vecchio regno delle Due Sicilie sono i vecchi proprietari terrieri, i «galantuonini», il cui imperativo sembra essere quello così ben espresso dal principe Uzeda né I vicerè di Federico De Roberto: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo farci gli affari nostri». Lo aveva capito Luigi Sturzo, attento lettore di Pareto: «Il vero problema non è quello del meridione, ma quello dei meridionali».
Ecco perché, prevede Pareto, nessuno riuscirà mai a risolvere la «questione meridionale»: «Le condizioni sociali ed economiche del Nord sono diversissime da quelle del Sud. Qualcosa di simile accade solo in Irlanda. Mentre Milano, Genova e Torino hanno una classe lavoratrice che sente e pensa come in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, nel sud Italia la borghesia e la nobiltà sono strapotenti. Un tribalismo delle masse e un cinismo dei potenti. Il popolo è ignorante».
Le ultime due lettere sono una analisi dei disastri prodotti da Francesco Crispi, che incarna nel senso peggiore il carattere degli italiani: lo statalismo in economia ha frenato ogni sviluppo industriale (per averlo ci vorrà il piemontese Giolitti), in politica estera ha realizzato un militarismo costoso e improduttivo, la vita sociale e politica è stata abbandonata al trasformismo e al clientelismo corruttore.
Ma a che cosa serve tanti anni dopo, rileggere queste lettere? Forse non molto, ma ci aiuta a capire che poco, da allora, è cambiato, come conclude amaramente il curatore del libro: «Sono 140 anni in cui, con l’eccezione di un breve intervallo nel secondo dopoguerra, la classe dirigente italiana ha fatto di corruzione e cialtroneria il suo tratto saliente. Per coloro che disperano ad ogni campagna elettorale, vedendo deteriorarsi la qualità del discorso pubblico e immiserirsi il ceto politico, è quasi un pensiero confortante. Been there, done that».
da Italia Oggi, 28 giugno 2018