Come la proverbiale rana nel pentolone, che non salta fuori dall’acqua se essa viene riscaldata solo un poco alla volta, così i diritti di proprietà in Italia stanno venendo erosi giorno dopo giorno con l’ininterrotto processo di rafforzamento del golden power.
La settimana scorsa scrivevamo che “nulla è più permanente del provvisorio”, commentando l’estensione dei poteri speciali del governo sulle acquisizioni, anche di quote di minoranza e anche da parte di soggetti europei, nei settori cosiddetti “strategici”. Ebbene, il decreto del 21 marzo non è ancora sbarcato in Parlamento che già l’esecutivo sembra considerare un’ulteriore escalation. Secondo quanto riferito dal Sole 24 ore, Palazzo Chigi considera le nuove norme “un primo passo importante ma non sufficiente”. Non basta, infatti, subordinare un numero sempre più vasto di operazioni al placet del governo: adesso si intende anche introdurre “strumenti strutturati di politica industriale per gestire quello che accade a valle del veto” con l’immancabile “mappatura delle filiere strategiche” e la creazione di una “struttura di sicurezza nazionale imprenditoriale”.
Siamo onesti: dietro queste parole così fumose si cela una realtà brutale. E’ come se, passo dopo passo, lo Stato reclamasse un pezzetto della proprietà delle “sue” aziende, sottraendole agli imprenditori e agli azionisti. Cresce senza sosta il novero delle casistiche in cui essi devono chiedere il permesso a Sua Maestà – dalla cessione di pacchetti azionari ad alcune variazioni statutarie fino, in casi specifici, alla scelta dei fornitori.
Parallelamente si amplia la sfera di discrezionalità che i pubblici poteri possono esercitare nel nome di una mai definita “strategicità” e senza mai dover rendere conto dei reali obiettivi delle decisioni prese né, tanto meno, dei loro effetti.
In questo modo, il significato stesso dell’espressione “diritti di proprietà” sembra venire meno, visto che essere proprietari di qualche cosa significa – in teoria – poterne disporre. Dal momento che il golden power è però perfettamente iscritto nella retorica del nazionalismo economico, la sua estensione (ovvero, la riduzione della possibilità di disporre di quel che è loro da parte di azionisti e imprenditori attivi in Italia e spesse volte anche “italiani” per passaporto) è accolta nel giubilo generale. Non stupiscono granché i partiti politici, che ormai gareggiano nell’ostentare uno statalismo sempre più aggressivo. Ma un po’ stupisce la Confindustria: non perché abbia mai difeso con grande ardore i principi del libero mercato, ma perché, in questo caso, non difende nemmeno il più immediato interesse dei propri soci. Il sindacato degli imprenditori all’apparenza vede di buon occhio questa loro “espropriazione”, ancorché soft.
A questo punto, tanto varrebbe prendere atto della realtà ed essere espliciti, cancellando tutto d’un colpo quello che viene lentamente obliterato. Se vogliamo fare le cose, facciamole bene e facciamole fino in fondo: si dichiarino nazionalizzate le imprese “strategiche”, se ne esproprino i titolari (magari corrispondendo loro una bella rendita in titoli di Stato), se ne affidi la gestione a un Comitato di salute pubblica. Finalmente cancelleremmo ogni ambiguità e vedremmo dichiarato apertamente, e non solo silenziosamente perseguito, il Piano quinquennale di declino e acquiescenza.
29 marzo 2022