E ora subito la trattativa su soldi e più poteri. Ma la strada è in salita

I risultati parlano chiaro e i governatori devono muoversi: Roma non può sottrarsi

23 Ottobre 2017

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Il risultato uscito dalle urne di Lombardia e Veneto conferma ciò che già si sapeva: e cioè che in tali regioni c’è una decisa aspirazione a gestirsi da sé e farsi carico in autonomia dei propri problemi. Veneti e lombardi hanno forte la consapevolezza di dare allo Stato molto più di quanto non ricevano, dato che queste due regioni perdono complessivamente oltre 70 miliardi ogni anno, destinati ad altre aree del Paese. Che succederà, ora? Roberto Maroni e Luca Zaia ricevono dalle urne una decisa spinta ad avviare una vera trattativa con Roma: su soldi e poteri. Anche se fino a oggi ogni richiesta di applicare il titolo V della Costituzione è stata ignorata, a seguito del voto ci troviamo in una situazione inedita, poiché le uniche due regioni che nel 2006 avevano votato a maggioranza per la riforma costituzionale della «devolution» sono ancora in prima fila per chiedere che si rafforzino le autonomie e s’indebolisca il potere centrale.

La battaglia non sarà facile e c’è il rischio, naturalmente, che la montagna partorisca un topolino. Tutti sanno che alla fine ci si potrebbe limitare a chiedere e ottenere solo qualche limitata competenza regionale in più, ad esempio, sulla scuola. Va però ricordato che proprio al fine d’indebolire la posizione delle due regioni impegnate nel referendum, nei giorni scorsi il governo di Roma e l’Emilia Romagna hanno firmato una dichiarazione che formalizza un percorso volto a dare più competenze alla regione amministrata dal centrosinistra.

L’obiettivo dell’esecutivo guidato da Gentiloni era chiaro: mostrare come i referendum fossero inutili e come si sia trattato di uno spreco che poteva essere evitato.

Il documento firmato lo scorso 18 ottobre, però, potrebbe essere un boomerang, poiché ormai ogni richiesta lombarda e veneta di avviare un percorso analogo deve essere presa in esame. E questo crea problemi a tutti: al governo, che dovrà mettere qualche contenuto nelle sue generiche intenzioni in favore delle autonomie; ai presidenti di Lombardia e Veneto, che dopo il voto devono mostrarsi molto determinati nei loro rapporti con l’esecutivo.

È risaputo che il processo autonomista deve fare i conti con due difficoltà maggiori. In primo luogo, a Roma non c’è una maggioranza disposta a riconoscere a lombardi e veneti alcuna facoltà di autogestirsi, e d’altra parte non si capisce per quale motivo i parlamentari del resto d’Italia dovrebbero favorire l’autonomia altrui. In secondo luogo, se si vuole essere concreti e andare al sodo, è evidente che un’autonomia non solo di facciata implica che i soldi prodotti nelle due regioni e che ora spariscono dalla disponibilità dei lombardo-veneti restino (in tutto o in parte) sul territorio. E a questo punto l’ostilità dell’insieme di deputati e senatori è prevedibile, anche in considerazione dello stato pietoso dei conti pubblici.

L’unica strada, forse, è quella d’immaginare un processo di crescente autogoverno che riguardi l’Italia intera, e che localizzi competenze, prelievo e spesa. C’è insomma l’esigenza che quanti nel Mezzogiorno dovessero perdere quote di assistenzialismo possano poter ridefinire le proprie regole, facendosi maggiormente attrattivi. La Calabria difficilmente guarderà con favore una richiesta lombarda di non destinare più al Sud una parte del proprio Pil, ma le cose possono cambiare se essa è in grado di definire tassazione e regole tali da favorire la crescita locale e stimolare l’arrivo di investimenti. Ad ogni modo, non ci si faccia illusioni: la strada che lombardi e veneti devono percorrere per poter autogovernarsi è davvero tutta in salita.

Da Il Giornale, 23 ottobre 2017

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