È raro in Italia quel buon senso svizzero sul salario minimo

Alberto Mingardi: "Gli elettori percepirebbero un beneficio immediato mentre i costi sarebbero nascosti alla loro vista"

20 Maggio 2014

Il Foglio

Luciano Capone

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Gli svizzeri hanno bocciato a larghissima maggioranza il referendum sull’imposizione del salario minimo più alto del mondo. La campagna popolare “Per la protezione di salari equi”, lanciata dall’Unione sindacale svizzera e sostenuta da socialisti e verdi, chiedeva l’introduzione in tutta la Confederazione di uno stipendio minimo di 22 franchi l’ora (circa 18 euro), pari a uno stipendio mensile di 4.000 franchi (oltre 3.200 euro). Le forze che si sono opposte al quesito referendario, in prima linea governo e imprenditori, sono state maggioritarie in tutti i 26 cantoni, per un totale di voti contrari superiore al 76 per cento. Alla proposta impulsiva dei sindacati di alzare gli stipendi per legge, gli elettori svizzeri hanno risposto con il buon senso, pesando anche i costi occulti di un provvedimento del genere, come l’aumento dell’inflazione e della disoccupazione, che attualmente in Svizzera è inferiore al 4 per cento (un terzo rispetto all’Eurozona). A pagarne le conseguenze sarebbero stati  proprio i giovani, le donne e i lavoratori poco qualificati, quelli per cui l’alternativa a uno stipendio relativamente basso non sarebbe stata uno stipendio più alto fissato per legge, ma la disoccupazione.

Il rifiuto di un salario minimo fissato per legge arriva peraltro pochi mesi dopo la bocciatura di un altro referendum, quello che lo scorso inverno chiedeva di fissare un tetto ai compensi dei manager entro un massimo di dodici volte lo stipendio più basso nella stessa azienda. Anche in quel caso la proposta aveva suscitato l’interesse dei media italiani e l’entusiasmo delle forze politiche di sinistra e del Movimento 5 stelle. E anche in quel caso gli svizzeri rigettarono l’intervento dello stato in economia preferendo una scelta razionale a una demagogica. Ma da dove deriva l’uso consapevole del voto da parte degli svizzeri? “Servirebbe un trattato di sociologia o antropologia dice al Foglio Mario Seminerio, economista e animatore di Phastidio.net, uno dei blog di divulgazione economica più seguiti. Gli svizzeri non scaricano responsabilità sull’esterno, sono concentrati su loro stessi e hanno un elevato grado di equilibrio e pragmatismo, una cultura della comunità che evidentemente è figlia della storia millenaria dei cantoni. L’assetto istituzionale è una formula magica dove tutti sono rappresentati nel governo del paese, in cui l’àssetto confederale e il ricorso ai referendum non hanno niente a che vedere con l’elogio caricaturale della democrazia diretta e del federalismo che fanno in Italia il M5s e la Lega”.

Gli svizzeri si rifanno realmente al motto einaudiano “conoscere per deliberare”: “Il salario minimo sarebbe stato anche un freno all’immigrazione, ma nella popolazione hanno prevalso considerazioni di efficienza economica nella consapevolezza di come funzionano le dinamiche economiche globali”. Un approccio del tutto assente nel dibattito italiano, dominato dalle tossine del populismo penetrate in gran parte dell’informazione e dei partiti. Cosa succederebbe se una proposta del genere dovesse essere votata in Italia? “Temo che si svilupperebbe un dibattito molto diverso – dice al Foglio Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni – E’ il problema di cui parlava Frédéric Bastiat, quel che si vede e quel che non si vede: gli elettori percepirebbero un beneficio immediato mentre i costi sarebbero nascosti alla loro vista”. Al contrario dì quanto si è portati a pensare, proprio il ricorso ai referendum e alla democrazia diretta può diventare una palestra per imparare a valutare anche le conseguenze non intenzionalì: ”Gli svizzeri votano tanto, e votano tanto su questioni di rilevanza veramente locale dice Mingardi. Insomma, giocando s’impara: il frequente ricorso allo strumento referendario abitua i cittadini elvetici a informarsi sulle questioni all’ordine del giorno e a ragionare nel merito più che per appartenenza politica”.

Da Il Foglio, 20 maggio 2014
Twitter: @lucianocapone

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