Slowbalisation, ovvero l’amalgama di guerre commerciali, rallentamento del mercato cinese, calo degli investimenti esteri. L’ultima copertina dell’Economist mostra una lumaca che regge il mondo sulle spalle e la lumaca, si sa, procede lentamente.
Slowbalisation è la crasi tra sluggishness (rallentamento) e globalisation (globalizzazione). L’antifona è chiara. Il settimanale britannico certifica il passaggio d’epoca: la globalizzazione ha trionfato per vent’anni, dal 1990 al 2010, e in questo periodo il mondo è cambiato profondamente: l’immigrazione è aumentata, il commercio globale è cresciuto. Poi, lo stop.
“Il costo di trasferire beni da un paese all’altro ha smesso di diminuire in parte a causa dei dazi”, scrive l’Economist. Le multinazionali hanno capito che la stagnazione globale brucia molti soldi e i rivali locali spesso sono più capaci del previsto. L’attività economica si sta spostando verso i servizi, che sono più difficili da vendere all’estero. Ad esempio, un avvocato cinese non può svolgere la sua professione a Berlino”.
E’ in questo clima plumbeo che la guerra commerciale promossa da Donald Trump ha messo solide radici, facendo proliferare i vari rami sovranisti così à la page in Europa: dall’Italia fino al coalizzato gruppo di Visegràd dell’est, relativamente fresco di ingresso nell’Unione ma a quanto pare già ben determinato a minarne le fondamenta.
Nel lungo termine, però, si legge sempre sul settimanale di Londra, la globalizzazione è un processo irreversibile. C’è il problema di mitigarne i costi, è vero, ma la slowbalisation, cioè la soluzione offerta al problema, finirà solo per alimentare il malcontento tra gli stessi cittadini che oggi trovano rifugio nelle ricette securitarie fatte di muri, protezionismo e chiusure varie (confini, commerci, servizi). Lo scorso 9 gennaio, sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia scriveva che “se l’ondata nazionalista-identitaria si va tanto rafforzando in Europa è in buona misura per una ragione ovvia quanto spesso ignorata: e cioè per il fallimento delle élite tradizionali del continente. Questo fallimento è stato un fallimento ideologico-culturale prima ancora che politico, ed è stato dovuto soprattutto all’identificazione con la globalizzazione e la sua ideologia, divenute a partire dagli anni 80-90 del secolo scorso il massimo e quasi unico punto di riferimento, la vera prospettiva pratica e ideale delle élite occidentali”.
Questa conversione alla globalizzazione, ha aggiunto Galli della Loggia, “è avvenuta per la presa d’atto della crisi, percepita come irrimediabile, dei tre pilastri sui quali l’occidente aveva realizzato la sua ricostruzione politica postbellica: a) la crisi religiosa del cristianesimo in progressiva ritirata di fronte all’offensiva della secolarizzazione; b) la crisi del Welfare State, cioè della redistribuzione del reddito nazionale pietra angolare della mediazione sociale praticata da parte di tutte le forze di governo a cominciare da quelle socialdemocratiche; c) la crisi dello stato nazionale messo nell’angolo dal multiforme internazionalismo egemone sulla scena mondiale”.
Abbiamo chiesto a economisti, politologi e filosofi, italiani e stranieri, di dire la loro sul tema. E’ stata davvero la globalizzazione a creare i sovranismi o il problema, forse più profondo e complesso, è un altro?
[…]
Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni. “In buona sostanza si è imposta una narrazione, che è quella riassunta da Galli della Loggia, secondo cui la globalizzazione crea incertezza, spaventa, non produce benefici per consumatori e lavoratori così la gente si rivolge a quegli imprenditori della paura che sono i leader populisti. Non ci credo”.
Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, è uno dei pochi in questo periodo storico che ha il coraggio di difendere pubblicamente il cosiddetto “liberismo”, quello che viene definito come “pensiero unico dominante” ma che in realtà non ha avvocati.
Ha appena pubblicato per Marsilio il libro La verità, vi prego, sul neoliberismo che è l’unico saggio sul mercato con la parola “neoliberismo” nel titolo a non accusare questa ideologia di ogni nefandezza. “E’ molto comodo parlare male del neoliberismo, per ragioni facilmente comprensibili. In certi periodi bisogna trovarsi un nemico e il nemico ideale è quello che non risponde. Cosa c’è di meglio, come nemico, delle forze impersonali dell’economia? La mano invisibile non ti dà uno schiaffo, anche se provi ad amputarla. E’ invece molto più complicato fare i conti con tutta una serie di errori politici concreti delle classi dirigenti”.
La gente però ce l’ha con il sistema, con la finanziarizzazione dell’economica, con un’apertura troppo rapida dei mercati globali e adesso chiede protezione. “Il cambiamento è stato guidato dall’offerta politica, non dalla domanda. E da noi si è legato a questa bellissima narrazione che stava bene a tutti, anche ai governi precedenti che l’hanno a lungo alimentata. E’ una narrazione vincente perché nessuno racconta l’altro lato della storia, e quando una narrazione diventa egemonica gli altri cominciano sempre chiedendo scusa, sì, però…”.
Però si tratta di un fenomeno che non è solo italiano, abbiamo avuto Trump in America, il M5s e Salvini in Italia, la Le Pen e Melénchon in Francia, la Brexit, Bolsonaro in Brasile e così via… “Non c’è un’ondata uguale in tutto l’occidente, Trump è una cosa e la Brexit un’altra e nessuna delle due ha a che fare con Salvini, quest’idea del corso inevitabile della storia è una scusa per non guardare agli errori politici”.
Ci sono però molte similitudini nelle proposte e soprattutto nel linguaggio. “C’è sicuramente una comunanza nello stile dei nuovi entranti nel panorama politico, dovuta anche ai nuovi mezzi di comunicazione che padroneggiano meravigliosamente. Quanto più salti intermediazione, tanto più parli come la gente mangia, tant’è che nella comunicazione di Salvini il parlare e il mangiare sono sovrapposti. Si imitano gli stili che funzionano, ma l’idea che esistano fenomeni politici sincronizzati in paesi diversissimi per struttura economica, sistema politico e istituzionale è sbagliata”.
E in Italia come si è unita la comunicazione politica alla realtà politica ed economica? “Ha cercato di spostarsi oltremisura lontano dalla sfida delle riforme. Anziché pensare di attrezzare l’Italia alla globalizzazione, di modernizzare il paese, si è cercato di fare altro. Dal punto di vista di Salvini è comprensibile: hai dietro di te la storia del centrodestra, che tutte le volte che ha cercato di fare qualcosa non ce l’ha fatta, se gli altri ti lasciano parlare di altro non è mica meglio?”.
Sta di fatto che la globalizzazione e il liberismo sono considerati la causa dei mali della nostra società. “Innanzitutto va precisato che globalizzazione e liberismo non sono la stessa cosa. Una volta i trattati di libero scambio erano di sette-otto pagine, dicevano: gli scambi sono liberi e non mettiamo i dazi, e poi qualcosa di tecnico. Oggi i trattati considerati monumenti al liberismo selvaggio sono documenti come il Nafta o il Tpp da migliaia e migliaia di pagine: per scambiare gli stati armonizzano mutuamente le regolamentazioni, ma non è che queste scompaiano. Se si vuole dire che le regole sono scritte sotto dettatura di grandi interessi economici è verissimo, ma di solito sono interessi protezionisti e non liberisti”.
Tutti dicono che è colpa del liberismo, ma nessuno si dice liberista. “Quando si fanno i nomi dei neoliberisti responsabili di tutto, quali nomi si fanno? Reagan e la Thatcher, che non governano più da trent’anni. Ho una grande ammirazione per entrambi, ritengo siano stati i due più grandi leader del mondo libero del Novecento, però è difficile dire che i problemi dell’oggi sono legati a loro. Soprattutto perché ci sono paesi, come l’Italia e la Francia, che i Reagan e le Thatcher non li hanno mai avuti. Chi ha fatto quelle riforme da noi, Berlusconi? A me non sembra. La spesa sociale non si è affatto ridotta, eppure se arrivasse un marziano che non potesse accedere ad alcun dato sull’Italia e ascoltasse i media, in buona fede ne dedurrebbe che la spesa è tra il 5 e l’8 per cento del pil”.
Quindi in Italia non c’è nulla di nuovo in questa fase politica? “No, anzi. Viviamo un’esperienza politica notevole e particolare. L’Italia è sempre stata un’avanguardia della degenerazione politica, ma tutte le nuove esperienze politiche hanno sempre avuto un carattere comune: puntavano alla modernizzazione del paese. Il grande fenomeno politico italiano, da Mussolini a Berlusconi, dal centrismo a Prodi, passando per Craxi e Renzi, è sempre stato quello di voler portare il paese a sedersi al tavolo delle grandi potenze senza doversi vergognare. Poi fallivano, non ce la facevano o facevano cose sbagliate, ma quella era l’ambizione tipica. Stavolta è il contrario, prevale un altro tema: l’idea dell’eccezionalismo italiano, che noi non possiamo gestire il trasporto aereo come gli svedesi o il servizio postale come gli inglesi, perché siamo diversi e dobbiamo fare le cose alla strana maniera in cui siamo fatti. Questo è un governo che non ha alcuna promessa di modernizzazione, anzi è formato da una maggioranza che si propone come artefice di un’Italia totalmente introflessa, che si guarda indietro, che pensa che i suoi giorni migliori siano alle spalle e lì vuole tornare. Questa è una novità”.
Da Il Foglio, 28 gennaio 2019