Ecco la leadership inglese

Oggi e domani a Lucca "The Legacy of Margaret Thatcher", un incontro con ospiti internazionali per ricordare la Lady di Ferro a un anno dalla sua scomparsa

4 Aprile 2014

Il Foglio

Antonio Masala

Professore associato di Filosofia politica, Università di Pisa

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Se davvero il thatcherismo è stato una rivoluzione, il primo interrogativo a cui rispondere è quale fosse la situazione precedente, e come sia stato possibile spazzarla via. La storia della Gran Bretagna nel Novecento è stata a lungo caratterizzata da un progressivo aumento dei compiti dello stato, concretizzatosi in misure volte a garantire il benessere sociale e in massicci interventi in economia. A partire dal 1945 inizia quello che è stato definito il welfare consensus, un periodo di ampio consenso per l’intervento statale nell’economia, caratterizzato in particolare dal tentativo dì garantire il pieno impiego alla popolazione maschile e il diritto all’abitazione. L’idea politica alla base del consensus era la necessità di “adattarsi” ai bisogni e ai desideri della democrazia, e gli esponenti del Partito conservatore che la sostenevano ne indicavano l’origine profonda nell’essere il loro un partito pragmatico e non ideologico.

Il consensus iniziò a incrinarsi solo verso la fine degli anni Sessanta, quando l’insostenibilità dei costi e la staticità dell’economia emersero in tutta la loro drammaticità, tanto da far apparire la Gran Bretagna il grande malato d’Europa. Gli anni Settanta furono caratterizzati dal graduale venire meno del consensus, ma anche dall’incapacità dei governi di affrontare lo scontro con le Trade Unions, che inevitabilmente bloccavano ogni tentativo di riforma del sistema. Dimostrazione ne è la vicenda del governo conservatore presieduto da Edward Heath, il quale vinse le elezioni del 1970 proponendo un programma di ispirazione liberale; proprio a causa della opposizione delle Trade Unions Heath si ritrovò a dover fare una brusca marcia indietro, la cosiddetta U-Turn, un episodio emblematico di come il governo non fosse più in grado di operare scelte e riforme. La “rivoluzione” della Thatcher va analizzata nel quadro storico-politico ora accennato. Un quadro che vede la fine del consensus e che passa per la rottura di tutti quegli equilibri che negli anni avevano cristallizzato l’economia e la società britannica, e avevano privato il governo del suo potere decisionale.
Gli elementi che consentirono la realizzazione di un tale mutamento sono il frutto di un complesso intrecciarsi di analisi teoriche e di circostanze storiche che trovano nella personalità della Thatcher, e nelle caratteristiche della sua leadership, un prezioso momento di raccordo. La concezione del vecchio paternalismo Tory, compatibile con il welfare e l’economia keynesiana, fu sfidata dalla Thatcher impugnando le idee liberali. Determinante fu la sua capacità di attrarre il consenso dei backbenchers, i parlamentari di secondo piano che riconobbero in lei una rappresentante del “ceto medio” che si contrapponeva a un establishment, “aristocratico” e lontano. Questo infatti la percepiva come una outsider, sia per essere donna sia per essere figlia di un droghiere, ossia per non appartenere a una classe sociale elevata, o almeno non averne acquisito i modi, come gran parte della dirigenza conservatrice. Il fatto che la Thatcher fosse stata eletta con l’appoggio determinante dei backbenchers fece parlare alcuni commentatori di una “peasants revolt”, una rivolta contro la vecchia classe dirigente. 

La Thatcher seppe sempre mantenere questo rapporto privilegiato con i backbenchers, ma con il tempo dimostrò una grande abilità anche nel gestire quella parte del partito (e anche un buon numero di civil servants, talvolta più importanti dei politici nel fissare le linee guida del governo) che le era ostile. Ebbe poi molto chiara la consapevolezza diffusa del declino britannico, e fu estremamente abile nel saperla sfruttare in termini elettorali. Nei suoi discorsi seppe legare il declino alla mentalità collettivista che si era affermata in Gran Bretagna indicendo una crociata contro le Trade Unions e il Partito laburista, ma anche attaccando la vecchia tradizione paternalistica del Partito conservatore a favore di un ritorno al libero mercato e allo spirito imprenditoriale.

In questo senso la Thatcher era il frutto maturo della “battaglia delle idee”, senza la quale forse ci sarebbe stata Margaret Thatcher come leader politico, ma non il thatcherismo. Guardando alla storia delle idee politiche negli anni Sessanta si assiste ad uno dei periodi più floridi di rinascita e di rivisitazione della teoria liberale, con le opere di autori quali, per citare solo i nomi più noti, Friedrich A. von Hayek, Milton Friedman, James M. Buchanan. Quei lavori si sarebbero dimostrati gravidi di conseguenze e la loro forza non era solo in ricette economiche che promettevano un maggiore sviluppo, ma anche nella difesa ideale della “società libera”, o meglio in una nuova descrizione e visione di cosa essa fosse. Allo stereotipo della società borghese basata sullo sfruttamento materiale e sull’annichilimento morale del proletariato si contrapponeva una visione del capitalismo quale motore di cambiamento, quale sistema aperto, in grado di garantire mobilità sociale e di dare a tutti, indipendentemente dalle condizioni di partenza, un’opportunità. In termini ideali il capitalismo si ripropone come una forza “progressiva” dello sviluppo umano, in alternativa aperta al socialismo e al paternalismo. 

Quelle idee, e questa “nuova” visione del liberalismo, furono filtrate nella cultura anglosassone da importanti columnist e vennero costantemente dibattute nei think tank, ponendo le basi per un rinnovamento “intellettuale” del Partito conservatore e per una vera rivoluzione culturale nel paese.
La Thatcher era consapevole di come il clima politico e intellettuale stesse cambiando, ma era anche consapevole delle difficoltà; determinante era il ricordo della UTurn del governo Heath, il quale aveva fallito perché aveva proposto un programma liberale senza avere dietro un’adeguata base ideale ma anche perché non aveva a disposizione la giusta strategia per confrontarsi con le lobby dominanti. Maturò l’idea che qualunque tentativo di cambiare il paese doveva fare i conti con il potere delle Trade Unions, maturò la consapevolezza che se le si fosse sfidate troppo apertamente probabilmente si sarebbero perse le elezioni, ma se si fosse accettato ancora una volta il “dialogo” questo sarebbe stato letale per i progetti di riforma. Il sistema appariva infatti “irriformabile” sulla base del dialogo, e di qui l’elaborazione di una strategia che prese il nome di stepping stones (le pietre che si usano per guadare i fiumi), che aveva l’obiettivo di cambiare il “climate of opinion” nel paese e arrivare ad assicurare un sostegno diffuso alle politiche di riforma. Si trattava di una strategia di graduale e crescente logoramento del potere sindacale, con il quale si evitava, o meglio si rimandava, lo scontro aperto senza però rinunciare ad attaccare la Trade Unions e a identificarle come responsabile, insieme al Partito laburista, del declino della Gran Bretagna.

Le difficili circostanze economiche diedero forza all’idea che, per quanto potesse non piacere, al cambiamento non vi era nessuna possibile alternativa. La cosiddetta “Tina” (acronimo dello slogan “there is no alternative”) si mostrò il grande espediente retorico che consentì la vittoria, nel partito prima e nel paese poi, della proposta politica di una minoranza, proposta che venne accettata come una “medicina” amara ma irrifiutabile. Per comprendere come questa medicina fosse composta, e come essa abbia potuto effettivamente funzionare, bisogna esaminare l’ultimo e caratteristico ingrediente della “ricetta”, che ci ricorda quanto gli individui contino nei processi storici, ossia Margaret Thatcher stessa.

La prima caratteristica del thatcherismo è infatti legata alla forte personalità della Thatcher, un politico fideisticamente convinto della necessità di un cambiamento per la Gran Bretagna, che si rifiutava di trattare con chi, rispetto a quella necessità, proponeva compromessi. La sua retorica e il suo modo di fare politica e di prendere decisioni si basarono su una distinzione quasi manichea tra bene e male, in cui il male era naturalmente rappresentato dalla mentalità e dalla “deriva socialista” che aveva per tanti anni contrassegnato la storia britannica. A caratterizzare la retorica thatcheriana fu non tanto, o non solo, un’apologia del libero mercato, ma soprattutto una sorta di demonizzazione dei “nemici” che, a suo dire, avevano rovinato la nazione britannica. La visione manichea della politica faceva assumere alla sua figura un aspetto quasi messianico (e che naturalmente agli occhi dei suoi nemici era invece decisamente “diabolico”), da profeta della redenzione nazionale. Se è vero che la caratteristica di ogni rivoluzione è saper raccontare una storia rispetto al passato, la Thatcher lo fece prima di tutto raccontando una storia negativa, identificando nelle Trade Unions e nella mentalità socialista i responsabili del declino della nazione britannica. Solo dopo, accanto a questo mito negativo del “socialismo inglese” si sviluppò il mito positivo di un pugno di audaci, la Thatcher e i suoi ministri, che da soli osarono sfidare l’establishment e un assetto di poteri ben radicato, per realizzare una “rivoluzione”.

Moral values. Thatcherismo come ideologia? 
L’intenzione della Thatcher non era solo rilanciare l’economia britannica, le ricette economiche erano anche, o soprattutto, un modo per difendere o “ripristinare” valori perduti. Il cuore della argomentazione thatcheriana non era l’aspetto economico, e la convinzione della Thatcher era che l’economia andasse male perché qualcosa era andato male dal punto di vista “filosofico e spirituale”. I valori morali si presentavano come prerequisito per la rinascita anche economica della Gran Bretagna e i problemi economici potevano essere risolti solo in termini di ripristino di valori morali, quelli che lei chiamava valori vittoriani, e che dichiarava di aver assimilato nella sua infanzia grazie all’esempio della “Victorian grandmother” e alla figura del padre. Il problema a cui la Thatcher si trovò di fronte era dunque questo: come fare a reintrodurre quei valori vittoriani che erano stati spazzati via da decenni di quello che lei definiva socialismo? Come invertire quel processo storico? Certo i valori non potevano essere inculcati coattivamente dal governo, ma ciò che il governo poteva fare era contrapporsi all’artefice del decadimento di quelle virtù, la mentalità socialista, e lo poteva fare cambiando completamente il quadro in cui gli individui si trovavano ad agire, per indurli nuovamente a considerarsi artefici del proprio destino e comportarsi di conseguenza. Questo significava non essere più il nanny state, ma essere lo stato liberale che si limita a fissare il quadro di regole in cui gli individui sono liberi di agire e cercare di realizzare il proprio benessere. A caratterizzare la visione della Thatcher è poi “l’argomento morale” a favore del “competitive capitalism” e delle sue istituzioni. Il suo obiettivo era più ambizioso e duraturo della semplice rinascita economica, che anzi diventava il grimaldello per ristabilire le virtù perdute. Alla luce di questo obiettivo va letta l’azione economica dei suoi governi e in particolare le privatizzazioni fatte durante il suo secondo mandato. Esse rappresentarono quello che fu definito il “popular capitalism”, ossia un capitalismo diffuso, con il quale, rendendo gli individui proprietari li si poteva portare a essere indipendenti e artefici del proprio benessere e del benessere nazionale.

Privatizzazioni e popular capitalism rappresentano il cuore pulsante del programma thatcheriano, sono la via per opporsi agli effetti del socialismo e per responsabilizzare gli individui rispetto al problema dei valori. In questo senso può essere interpretata non solo la privatizzazione delle imprese statali, ma soprattutto la loro vendita ai piccoli azionisti (passarono da 3 a 11 milioni), che traendo dei vantaggi economici diventavano così sostenitori del mercato. Un passaggio speculare fu la massiccia privatizzazione delle case di proprietà dello stato, vendute a bassi a prezzi a chi vi abitava: il fine, ancora una volta, non era (solo) economico, ma era vedere dispiegati i benefici effetti della proprietà privata, rafforzando tramite la proprietà di una casa la responsabilità e il senso della famiglia.
E infine la stessa lotta alle Trade Unions aveva un risvolto “morale”. Il fatto che l’iscrizione al sindacato fosse divenuta obbligatoria per tutti coloro che cercavano un lavoro veniva considerata dalla Thatcher una violazione dei diritti individuali, la lotta al sindacato era anche una battaglia per restaurare la libertà individuale e il carattere volontario dell’adesione a qualunque organizzazione. 

Sfide e paradossi di una leadership liberale 
Lo studio del thatcherismo pone anche una serie di questioni interessanti per la teoria politica liberale, in particolare riguardo la possibilità che il libero mercato possa, o debba, essere “costruito” o “ricostruito” dalla politica, e riguardo il ruolo che può svolgere una leadership carismatica, ossia una categoria politica per definizione poco liberale, in un progetto di difesa della libertà individuale. L’intenzione della Thatcher era governare servendo il “bene comune” in contrapposizione agli interessi particolari dei gruppi di pressione, una capacità che lo stato sembrava aver perso. La ricetta era quella di un liberale conservatore: invertire il processo riducendo i compiti dello stato, la sua “sfera d’invadenza”, e così da un lato rilanciare l’economia, e dall’altro recuperare l’autorevolezza perduta. Tuttavia il modo in cui venne realizzato il cambiamento della democrazia britannica lascia aperti degli interrogativi su cui soffermarsi.

La Thatcher si fidava solo di se stessa, temendo non solo gli avversari, ma spesso anche gli alleati. La tendenza a voler intervenire continuamente in prima persona era in gran parte una conseguenza del suo carattere. Questa tendenza ebbe poi una conseguenza molto rilevante: cercare sempre un rapporto privilegiato con il popolo, della cui volontà e dei cui reali bisogni si sentiva autentica interprete. La Thatcher era convinta che le riforme da lei realizzate restituissero al popolo il potere, la sovranità di cui era stato spogliato dalla classe politica negli anni del consensus. La via per restituire al popolo il potere e la libertà passava per le privatizzazioni, che dovevano portare a una “nazione di proprietari” responsabili e artefici del proprio destino, e per la lotta alle corporazioni, in primo luogo le Trade Unions e i Local Governments (molto spesso gestiti dai laburisti), che avevano visto crescere il loro potere sugli individui (“prendendosene cura”) e avevano imposto un aumento e un cambiamento dei compiti dello stato.

Tutti questi possono apparire tipici problemi delle democrazie contemporanee, e la soluzione può sembrare quella classica del liberalismo. Tuttavia, non si deve dimenticare che uno dei risultati fu un processo di “nazionalizzazione” di tutte quelle istituzioni (servizio sanitario, scuole, università, carceri, parte importante dell’amministrazione della giustizia e della polizia) che in passato venivano in buona parte controllate da autorità locali, e spesso direttamente elette dai cittadini. La Thatcher tentò, per lo più con successo, di riorganizzarle e farle passare sotto il controllo dello stato, e per realizzare un tale obiettivo si procedette anche alla politicizzazione dei civil servants, i quali, divenendo strumento del governo in contrapposizione alle autorità locali e agli enti autonomi, perdevano la loro neutralità. Ecco allora un primo paradosso: se l’obiettivo era risolvere la “crisi della rappresentanza” il  problema dell’incapacità del governo di decidere nell’interesse dell’intera nazione, perché troppo condizionato dai gruppi di pressione -, questo avvenne solo in un primo momento tramite la lotta ai sindacati e alle corporazioni. Infatti, a partire dal secondo mandato lo strumento diventa una leadership che si propone anche di spazzare via i vari corpi intermedi, più o meno “degenerati”, per restituire allo stato, o meglio al governo, la sua autorità, rendendolo l’unico interprete della volontà popolare. Se il risultato a cui si aspirava, e che in parte fu realizzato, non fosse stato una riduzione dei compiti dello stato, e una regolamentazione delle spese ormai fuori controllo, tutto questo potrebbe apparire quasi come un caso di democrazia giacobina, in cui il leader diventa l’unico interprete della volontà popolare e spazza via i corpi intermedi.

L’azione politica della Thatcher va incontro a un ulteriore paradosso. Il suo governo fu infatti estremamente attivo nel cambiare lo stato di cose esistente, al punto da apparire invadente e quasi rivoluzionario. Il percorso verso il cambiamento dell’economia e dei rapporti tra i diversi attori sociali assunse quasi la forma di una “pianificazione al contrario”: bisognava “costringere” il mercato a funzionare, e poiché le “incrostazioni” che ne impedivano il funzionamento erano molte, l’intervento doveva essere forte, e doveva essere fatto dalla politica. Si interveniva per rinvigorire il mercato e lo spirito imprenditoriale, ma lo si faceva con un continuo, ingombrante e pianificato intervento statale. Una posizione che poco s’addice alla visione conservatrice, secondo la quale si devono evitare i grandi cambiamenti improvvisi, ma anche a quella liberale, che vorrebbe il ruolo dello stato il meno invasivo possibile.

Se tale contraddizione può apparire rilevante dal punto di vista delle teoria politica essa non lo era per la Thatcher. La sua idea era che si dovesse “tornare indietro”, ossia agire per ripristinare le antiche libertà britanniche (e in questo senso si dichiarava conservatrice), e lo strumento non poteva che essere una forte azione di governo. Se si deve tornare indietro dopo anni di politiche sbagliate, le azioni che deve fare il governo sono molte e articolate, ma a contare è l’obiettivo finale; non conta quanto il governo interviene, ma in che direzione. Pur tenendo distinte la visione del teorico da quella del politico un problema inevitabilmente emerge: è ipotizzabile che la realizzazione di idee liberali, o anche conservatrici, avvenga con un governo che usa metodi che non appaiono né liberali né conservatori? E’ possibile “restaurare” la libertà, e affermare valori liberali (o conservatori nel senso in cui li vedeva la Thatcher), con un intervento governativo in qualche modo “dispotico”? Questi interrogativi ci spingono però anche a riflettere su quello che potremmo definire il problema del liberalismo oggi: non più solo come limitazione della crescita dello stato e della politica, ma anche come tornare indietro rispetto a uno stato che è diventato troppo ampio e invasivo. Rispetto a questo problema il liberalismo non ha a disposizione una teoria che sia in grado di dirci come fare, che strada intraprendere per invertire quel cammino.

E forse proprio qui si colloca l’interesse riguardo all’esperienza thatcheriana, che è stata l’uso dello strumento di una leadership carismatica e anche (almeno nel metodo) “giacobina” per cercare di “tornare indietro”, pianificando a favore del libero mercato e intervenendo nel tentativo di creare valori condivisi a sostegno del mercato. Un’esperienza che, forse paradossalmente, ripropone il “primato della politica”, e la necessità di usare la politica per ridurre la politica. Un tentativo che può apparire paradossale se si guarda alle categorie classiche del liberalismo, ma che ad esempio non desta sorpresa se si tengono presenti gli studi di Michel Foucault sulla biopolitica, che meriterebbero di essere approfonditi proprio in chiave liberale.

Antonio Masala è assistant professor in Teoria politica all’Institute for Advanced Studies di Lucca. Pubblichiamo stralci dell’intervento “Sfide e paradossi del Thatcherismo” che Masala esporrà oggi in occasione del convegno “L’eredità di Margaret Thatcher“. La conferenza che si terrà a Lucca è organizzata dall’Institute for Advanced Studies, dalla Fondazione Magna Carta e dall’Istituto Bruno Leoni. Vi prenderanno parte, tra gli altri, Franco Debenedetti, Giovanni Orsina, Fabio Pammolli e Maurizio Sacconi.

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