30 Marzo 2016
Il Foglio
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Il dibattito riguardante il referendum sulle trivellazioni in mare aperto rinvia a una contrapposizione assai netta: da un lato vi sono gli ambientalisti, ideologicamente contrari al metano e al petrolio, nella convinzione che le energie rinnovabili possano bastare alle nostre necessità; e dall’altro vi sono quanti difendono le esigenze dell’economia e della tecnologia, sulla base della tesi che oggi non esistono valide alternative alle energie in uso e che un successo del referendum avrebbe un costo davvero eccessivo. Vi sono però temi cruciali che sembrano lasciati ai margini, e cioè le questioni di giustizia. Un simile silenzio è ingiustificato, dato che invece può essere utile chiedersi, per esempio, come il referendum possa essere letto a partire da una prospettiva rigorosamente liberale (o anche libertaria), che s’interroghi primariamente su “cosa” sia legittimo fare e da parte di “chi”. Per la filosofia del diritto che innerva la scuola liberale, è evidente che la natura non ha diritti e che solo gli esseri umani ne hanno. Non può quindi esistere – in linea generale – alcun impedimento a sfruttare giacimenti minerari a disposizione dell’umanità. Nell’universo culturale degli indiani d’America, un mistico dell’Ottocento molto caro all’ecologismo radicale, Smohalla, rifiutava l’agricoltura dei bianchi partendo dall’idea che non si potesse ferire il volto della Madre Terra con l’aratro. Situandosi agli antipodi di tale prospettiva, però, il liberalismo è un rigoroso erede dell’antropocentrismo biblico, che vede l’universo al servizio dell’uomo.
Gas e petrolio, quindi, si possono sicuramente estrarre, a condizione che tale attività non comporti “esternalità” negative (offesa, aggressione, danno) per altri. Sul tema vi sono opinioni diverse, ma certo è difficile pensare che impianti tecnologicamente avanzati e costantemente monitorati possano comportare seri pericoli per i diritti altrui. Resta aperto l’interrogativo su chi abbia la facoltà di avviare tali attività estrattive. Nella logica contemporanea, dominata dallo stato e dalle sue proiezioni sovranazionali, ogni attività di ricerca e sfruttamento dei giacimenti implica una licenza. L’idea di fondo è che in linea di principio tali risorse siano integralmente demaniali, così che i soggetti privati possono agire soltanto sulla base di concessioni.
Ha però una qualche giustificazione ritenere che lo stato possegga quanto si trova nelle viscere della montagna oppure, come in questo caso, al di sotto dei fondali marini? Cosa può legittimare tale titolo e una simile pretesa? Per gli autori liberali e libertari vale sempre la vecchia regola che John Locke elaborò a partire da una lunga tradizione: è proprietario di un bene chi lo scopre e lo lavora. È solo il “primo occupante” che ne intuisce ed estrinseca le potenzialità economiche ad avere il pieno diritto di considerare suo quel pezzo di mondo. Invece che cercare di sbarrare la strada alle imprese impegnate a rifornirci di energia, bisognerebbe allora fare tutto il possibile per delineare un migliore inquadramento giuridico: che attribuisca i titoli di proprietà a quanti ne hanno diritto (ai veri colonizzatori della terra) e che in tal modo apra la strada a una dinamica concorrenziale più spinta. Se c’è un elemento positivo in questa diatriba sulle trivelle è che può farci considerare in modo nuovo la proprietà: lontano da ogni ecologismo. Per questo il 17 aprile si può anche non andare a votare: per far saltare il referendum e anche perché ogni voto (nei fatti) è quasi senza peso. E poi potrebbe anche essere una bella giornata di sole.
Da Il Foglio, 30 marzo 2016