29 Marzo 2017
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Hanno suscitato varie polemiche le recenti decisioni del governo Gentiloni in tema di società partecipate. Chi si aspettava che il ministro Maria Anna Madia ponesse le basi per una ampia riduzione del numero di quegli enti inutili di cui si parla ormai da decenni, oggi appare deluso dinanzi a uno scenario italiano restio a cambiare. Invece che con una vera riforma, ci si trova a che fare con un limitato “maquillage”. E alla fine gli enti inutili che verranno cancellati saranno ben pochi, con risparmi molto ridotti.
In Italia le piccole e piccolissime società in qualche modo “pubbliche” (controllate dallo Stato, o anche da Regioni e Comuni) sono migliaia, anche se un conto esatto è difficile. Spesso si tratta di enti con gestioni non trasparenti e bilanci in passivo. Eppure queste società hanno una loro capacità di resistenza, così che si fa fatica a voltare pagina.
Il risultato è che il contribuente continua a finanziare questo arcipelago di centri di potere che sono per lo più “autoreferenziali”: non offrono servizi al cittadino, ma hanno quale scopo principale la gratificazione di chi è riuscito a ottenere una poltrona.
Per comprendere le difficoltà della politica dinanzi a tale dossier conviene sviluppare una riflessione di carattere più generale. Bisogna infatti rendersi conto che se lo Stato è in crisi (sempre più indebitato e delegittimato), il parastato se la cava benissimo. Anzi: proprio il declino dei partiti tradizionali e delle ideologie novecentesche ha fatto sì che ormai la sfera pubblica quasi coincida con questo vasto apparato di poteri sotterranei: imprese statali, banche, authority, municipalizzate, fondazioni culturali, ecc.
Per meglio capire gli impacci del ministro Madia bisogna allora porre mente à fatto che, proprio mentre si arenava la battaglia contro gli enti inutili, si andava combattendo un duro scontro nei piani alti della politica in merito alle nuove nomine alla testa di Eni, Enel, Enav, LeonardoFinmeccanica, Poste, ecc.
Al di là dei limiti e delle qualità di quanti sono stati selezionati, è fondamentale tenere presente come l’Italia viva entro un sistema di potere nel quale l’economia è largamente guidata dalla politica e la politica è ormai soprattutto un gioco di relazioni personali, alleanze, opportunismi, scambi di favori.
Scorrere i nomi di quanti sono stati posti alla guida delle aziende pubbliche principali, significa focalizzare l’attenzione su ciò che resta della vita pubblica in questa fase declinante: e i boiardi super-stipendiati che, da Roma, gestiscono questi grandi complessi industriali incarnano una dimensione essenziale del potere reale del nostro tempo.
Ma quello che è vero a Roma è egualmente vero, in scala ridotta, nei centri di provincia e nelle comunità montane.
Chi si scandalizza per le 1279 società che hanno più amministratori che dipendenti e per quelle 1138 che hanno bilanci fantasma (in quanto prive di carte contabili), dovrebbe essere consapevole che queste scatole vuote sono solo la punta dell’iceberg di un universo che rappresenta un’ampia quota della nostra economia. E che se non si esce da queste logiche spartitorie, non ci può essere futuro.
Da La Provincia, 29 marzo 2017