C’è un sistema produttivo ancora capace di resistere a un campo da gioco sempre più accidentato
18 Aprile 2024
Il Riformista
Carlo Amenta
Direttore Osservatorio economia digitale
Argomenti / Economia e Mercato
L’economia italiana ricorda uno di quei grandi campioni che hanno appena imboccato il viale del tramonto. Segna e dribbla meno di un tempo ma riesce comunque a restare nel giro di quelli che ancora fanno sognare i tifosi, anche se gli acciacchi dell’età e il peso ormai lontano dalla forma ne appesantiscono la corsa, aumentano gli infortuni e fanno temere sempre per un prossimo definitivo ritiro. A segnare e dribblare ci pensa un sistema produttivo ancora capace di adattarsi e resistere, con crescente difficoltà, a un campo da gioco sempre più accidentato da crisi internazionali e reso spesso troppo pesante dal giogo oppressivo della burocrazia e delle inefficienze statali.
A rallentare e fare temere il ritiro è un soggetto pubblico con un appetito pantagruelico che drena risorse dai cittadini senza riuscire mai a mettere a dieta il suo bilancio ormai ipertrofico. Sugli spalti, preoccupati eppure ancora pieni di speranza, stanno i cittadini, qualche volta consumatori, altre volte produttori o impiegati pubblici e privati, che provano a realizzare le proprie aspirazioni individuali in un mondo sempre più competitivo e interconnesso. Le più recenti statistiche pubblicate in aprile dalla Banca d’Italia nell’ultimo numero de “L’economia italiana in breve”, ci raccontano di un paese che cresce poco, in un contesto di generalizzato calo della spesa delle famiglie, ormai fortemente intaccata dagli effetti della prolungata onda inflattiva, con qualche segnale di ripresa sugli investimenti delle imprese spinto anche da un aumento del clima di fiducia nell’anno in corso e con un tasso di disoccupazione sempre al di sopra della media dell’area euro.
Il bilancio pubblico è straripato e l’ultimo Documento di Economia e Finanza è una fotografia impietosa del disastro dei conti causato dalla spesa per i bonus edilizi, compresi il Superbonus, lievitati ad oltre 219 miliardi effettivi: le scelte per riparare il buco sono di fatto rimandate a dopo le elezioni europee ma pare non sarà più possibile aumentare il deficit, per i cui eccessi sarà già aperta una procedura di infrazione dall’Unione Europea.
Dovrà salire la pressione fiscale con nuove imposte o si dovranno tagliare le voci di spesa, magari procedendo con più decisione sulla leva della dismissione di società e beni statali. Il tutto è appesantito da un rapporto tra debito e PIL che non ferma la sua corsa e, in un contesto di tassi di interesse che tardano a calare, contribuisce a sua volta a restringere gli spazi di manovra in ragione del sempre maggiore impatto della spesa per gli interessi. Nonostante lo stato di malattia ormai grave del soggetto pubblico, le imprese italiane nel primo trimestre 2024 hanno migliorato i propri giudizi sulla situazione economica generale e sulle proprie condizioni di gestione.
Nel secondo trimestre i manager, intervistati da Banca d’Italia per l’indagine periodica sulle aspettative di crescita e di inflazione, si aspettano una ripresa delle vendite sia sul versante interno che su quello della domanda estera. Anche le aspettative sull’inflazione vedono un generale miglioramento che prefigura una possibile ripresa della spesa delle famiglie e dei consumatori. Ma la situazione complessiva resta difficile e l’Istat ha di recente pubblicato i dati che evidenziano un forte calo congiunturale del fatturato dell’industria nel gennaio 2024, solo parzialmente compensato da un incremento nel settore dei servizi, comunque gravato da una strutturale mancanza di competizione sul mercato per le troppe barriere all’ingresso, anche a livello di mercato unico europeo. Il problema principale resta quello di una scarsa presenza di imprese grandi che solitamente mostrano indici di produttività, la misura del valore aggiunto creato dai fattori di produzione impiegati, più elevati.
Proprio la produttività delle imprese resta il grande problema del nostro paese e un recente studio, condotto da Rosalia Greco per i Quaderni di Economia e Finanza di Banca d’Italia sui paesi europei per il periodo dal 2000 al 2019, spiega che la minore crescita in termini di produzione del nostro paese rispetto a Germania, Francia e Spagna è spiegabile proprio con la scarsa produttività del lavoro. A mostrare i segni di maggiore vitalità sono le imprese manufatturiere maggiormente esposte al commercio e alla competizione internazionale, mentre il settore dei servizi mostra imprese poco produttive un po’ in tutta Europa. Ed è anche la mancanza di concorrenza e di competizione, oltre al peso di un settore pubblico inefficiente e spendaccione, che rende il nostro paese così poco propenso alla crescita e che riduce la possibilità di migliorare la situazione economica dei suoi cittadini.
L’indice della libertà economica redatto ogni anno dalla Heritage Foundation valuta i paesi del mondo sulla base del rispetto dei diritti di proprietà, dell’integrità del governo e della misura complessiva della sua spesa, dell’efficacia del sistema giudiziario e della pressione fiscale. L’Italia nel 2024 è risultata ottantunesima su 184 paesi, con un peggioramento rispetto all’anno precedente che l’ha portata a classificarsi alle ultime posizioni nel continente europeo. La mancanza di competitività economica è esacerbata dalla mancata adozione di riforme strutturali serie e da una scarsa qualità delle istituzioni pubbliche. Un quadro di regole incerto e complesso incentiva la persistenza di un settore economico informale che non aiuta la crescita economica.
Un quadro demografico che vede la popolazione in calo, anche per l’emorragia causata dall’emigrazione intellettuale dei giovani che cercano fortuna per il mondo, e il progressivo invecchiamento che pesa su un sistema di welfare troppo inefficiente perché direttamente gestito dallo Stato, contribuiscono a rendere poco rosee le prospettive economiche del Paese e a lasciare a chi governa la proposta di soluzioni che somigliano molto all’olio di serpente venduto come toccasana nelle fiere di paese del vecchio west. L’economia italiana soffre per il peso eccessivo del settore pubblico e per una tendenza generale di molte imprese e dei loro rappresentanti a concentrarsi più sull’ottenimento di rendite, magari legate a qualche generoso credito d’imposta, e alla protezione dalla competizione internazionale e delle imprese più innovative che a cercare di capire come soddisfare al meglio bisogni e desideri dei consumatori.
Non esiste una soluzione che arrivi dall’alto, non serve la bacchetta magica del prossimo politico Harry Potter che prometta di risolvere tutto non appena arrivato al governo. Servono più libertà e più concorrenza. Dismettere i beni pubblici e creare le condizioni per affidare ai privati i servizi regolati, garantendo la massima partecipazione e una reale competizione tra gli operatori interessati. Abbattere le rendite di posizione delle professioni regolate aprendo alla massima competizione anche nel settore dei servizi. Consentire che anche i settori tradizionalmente gestiti dal pubblico quali la sanità e l’istruzione possano trovare le più efficaci forme di partecipazione dei privati, garantendo comunque la piena partecipazione di tutti i cittadini con l’erogazione di sussidi diretti che consentano la fruizione dei servizi migliori anche ai meno abbienti. Tra tutte le soluzioni adottate per rilanciare l’economia solo la ricetta della maggiore libertà è quella che fa fatica a essere accettata in questo paese e in Europa.
Una maggiore libertà per imprese e individui che appare sempre più lontana, alla luce di una congiuntura nella quale tutti accettano acriticamente che i problemi nazionali ed europei si possano risolvere con un intervento pubblico più vasto, più pervasivo e più discrezionale. Ma questa, come noto, è solo una strada lastricata di buone intenzioni che non conduce di certo al paradiso economico.