11 Ottobre 2022
Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
Comporre un nuovo governo è un po’ come montare un lego alla cieca, senza sapere dove andranno i mattoncini. Come in qualsiasi gruppo di esseri umani, il curriculum del singolo non garantisce che lavorerà bene con gli altri. Inoltre, persino nella costruzione della squadra il premier non può permettersi di avere solo un obiettivo. Preparandosi a ricevere l’incarico dal capo dello Stato, Giorgia Meloni deve pensare almeno a tre cose: la prima è circondarsi di persone competenti e riconosciute come tali. La seconda è dosare bastone e carota verso gli alleati, affinché il loro sostegno non si riveli intermittente. La terza è mettersi in condizione di governare, una volta ottenuta la fiducia del Parlamento e la benedizione dell’Unione europea. Non è facile come sembra: ogni tanto le trattative finiscono anche per sfinimento.
Se la scelta di ogni ministro è complicata, quella del ministro dell’Economia lo è più di tutte. Sul nome del prossimo inquilino di via XX Settembre i mercati, i partner europei, ma anche gli italiani, tareranno le aspettative circa il governo Meloni.
Alleanza nazionale (il cognome da ragazza di Fratelli d’Italia) era un partito relativamente debole sui temi economici. Nei diversi governi Berlusconi, a suoi esponenti toccarono dicasteri di peso, come l’Ambiente, l’Agricoltura, le Infrastrutture, persino gli Esteri con Gianfranco Fini, mai Economia, Attività produttive, Lavoro. Contavano gli equilibri interni alla maggioranza ma anche i rispettivi corpi elettorali. An prima e FdI fino a pochi anni fa erano partiti radicati nel Meridione e che pescavano consenso soprattutto nel pubblico impiego. Se Meloni è passata dal 6,5% delle europee del 2019 al 26%, è perché questa volta ha conquistato il Nord, ereditando voti che tradizionalmente andavano altrove. Costoro l’hanno premiata per l’opposizione ai lockdown, l’hanno scelta stanchi delle alternative all’interno dello stesso centrodestra, ma si sono anche fidati dello slogan che ha ripetuto in campagna elettorale. Meloni ha detto di volere uno Stato che non disturbi chi ha voglia di fare, rinnovando a un certo segmento del corpo elettorale la promessa per cui vota il centrodestra dal 1994 in avanti: quella di mollare le briglie, di «liberare» imprese gravate da un carico regolamentare e fiscale fra i più pesanti d’Europa. Nello stesso tempo, la leader di FdI ha fatto campagna elettorale da premier in pectore, pensando a mercati e cancellerie europee. In particolare, è stata molto prudente sulle finanze pubbliche, escludendo nuovo deficit.
Adesso ha bisogno di un ministro dell’Economia che riesca a fare due cose assieme. La prima, e più urgente, è attutire i pregiudizi di Europa e investitori. La seconda, però, è non rinunciare sin da principio alla possibilità di fare scelte nette, scegliendo il quieta non movere. In altre parole, il nuovo ministro dell’Economia dovrebbe rassicurare, ma non proprio tutti: non proprio tutti i gruppi sociali, non proprio tutte le articolazioni della pubblica amministrazione, non proprio tutti i centri di potere.
Ha poco senso immaginare una «continuità» con il governo Draghi. Quest’ultimo, infatti, non aveva e non poteva avere un’idea chiara e inevitabilmente controversa su come cambiare questo Paese. Non poteva avercela per motivi «genetici»: era sostenuto da partiti che dicevano peste e corna l’uno dell’altro fino a un momento prima di dargli la fiducia e che avrebbero ricominciato un secondo dopo.
La luna di miele fra elettori e governi dura sempre pochi mesi, questa volta sarà ancora più breve, perché incalza la crisi energetica e, con essa, decisioni impopolari. Meloni e il suo ministro dell’Economia dovranno scegliere quali mantenere e quali abolire fra i tanti sussidi energetici messi in campo quest’anno, dal momento che tutti insieme sono insostenibili per le finanze pubbliche. Se vorranno sostenere aziende e famiglie e non spaventare i mercati, dovranno prendere le forbici ed eliminare altre spese: dal mettere mano al bonus 110% o al reddito di cittadinanza, delle risorse possono venire, ma bisogna avere la forza politica di tagliare presto e bene. Non dovranno perdere di vista l’inflazione, ricordando che «mettere soldi nelle tasche dei cittadini» significa, nel breve, spingerla ancora di più.
Per tutto questo il nuovo premier ha bisogno di un ministro di peso, che sia autorevole dentro e fuori Italia e che condivida l’obiettivo di «non ostacolare chi ha voglia di fare». Serve un tecnico capace di rintuzzare l’alta burocrazia e consapevole che all’economia italiana non occorre un piano regolatore ma una boccata di ossigeno. È una ricerca più complicata di quella di Diogene.
dal Corriere della Sera, 11 ottobre 2022