Il mercato disinnesca gli egoismi. Stresa, gli avidi e i titoli fuori controllo

Le istituzioni possono contenere o enfatizzare i comportamenti, ma nessuna ci garantirà mai l'immunità da scelte che hanno esiti indesiderabili

28 Maggio 2021

Il Foglio

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Una volta il suo prediletto chiese a Pirro, re dell’Epiro, che cosa avrebbe fatto compiuta l’ultima delle conquiste che aveva progettato. Finalmente, gli rispose il re, mi toglierò l’armatura, mi cercherò un compagno di divertimenti e mi darò ai bagordi. Vostra maestà, gli chiese il suo prediletto, che cosa vi impedisce di farlo ora?

L’apologo viene usato da Adam Smith, nella “Teoria dei sentimenti morali”, per spiegare come “la grande fonte – sia della miseria che dei disordini della vita umana – sembra derivare dalla sopravvalutazione di una situazione permanente sull’altra”. Le persone dominate dalla vanagloria, dall’ambizione, dall’avidità, tanto più quando sono sole, lasciate al costante rimuginino sopra le proprie doti e i propri obiettivi, possono “disturbare la pace della società” pur di raggiungere la situazione alla quale sentono di dover tendere e in qualche modo di avere diritto.

Mentre i fatti restano ancora da chiarire, la tragedia di Stresa è diventata per il grosso della stampa italiana il pretesto per raccontare una “strage dell’avidità”. Destra e sinistra unite se non nella lotta almeno nei titoli: per una volta la prima pagina di Repubblica somigliava a quella di Libero. Ma, come ha raccontato Mario Gerevini sul Corriere della sera, Luigi Nerini, il gestore dell’impianto, è un precario dell’imprenditoria, al quale non sono mancate le iniziative perlopiù andate male, uno che si è trasferito nella villa ereditata dalla nonna e che non può mantenere e che guarda, dal basso, le famiglie proprietarie degli hotel di Stresa, quelle che i soldi ce li hanno davvero. Se la deve essere passata male, in un anno di lockdown, come tutti coloro che provano a campare di turismo.

La sua non è un’avidità grandiosa, di quelle che eccitano l’immaginazione popolare e i vendicatori delle diseguaglianze. E’, in parte, il desiderio che tutti abbiamo di migliorare la nostra situazione, di guadagnare un po’ di più, di sentirci un po’ più sicuri. Se ciò gli ha annebbiato il giudizio, se ha messo a repentaglio per quattrini la sicurezza degli utenti dell’impianto che aveva in gestione e anche i suoi figli, che domenica scorsa lo hanno usato, forse è anche perché sopravvalutava il sollievo, la tranquillità, la soddisfazione che gli avrebbe offerto una situazione economica migliore.

Non lo sappiamo, ma non sarebbe inimmaginabile. Non dovrebbe esserlo soprattutto per noi che infliggiamo quotidianamente i nostri pensieri ai lettori, che sopravvalutiamo costantemente il peso della nostra opinione, avidi di vanagloria, illusi che una nostra parola faccia la differenza, irritati perché la farebbe sì, ma se fosse stampata su quella pagina, con quella collocazione, dove peraltro non fanno la differenza parole altrui.

Se tutti puntiamo il dito contro Nerini, è perché simpatizziamo profondamente con le famiglie delle quattordici persone che a Stresa hanno perso al vita, perché ci immedesimiamo col loro dolore, perché ci tremano i polsi a pensare a un figlio che dovrà crescere senza il padre che l’ha salvato col suo abbraccio. Ma se fossimo onesti con noi stessi, dovremmo ammettere che non ci è difficile metterci nelle scarpe di Nerini, condividerne l’ansia per il futuro e pure il bisogno di affermazione, capire (senza assolvere) quella furbizia che sembrava un “rischio ragionato” e che invece è andata male, malissimo, e per cui dovrà pagare.

Vivremmo tutti meglio se riuscissimo ad apprezzare ciò che abbiamo, a contentarci del nostro, a non trasformare le nostre ambizioni in ossessioni. Però siamo fatti in modo diverso e l’equanimità che ci porterebbe a stimare meglio i vantaggi della nostra situazione, la nostra relativa prosperità rispetto alle generazioni precedenti e ai poveri del mondo, è una virtù rara. Noi tutti ci inganniamo circa quel che può darci la ricchezza, la fama, la frase giusta al posto giusto. E per la società in genere è un bene che sia così, perché quell’autoinganno alimenta anche le grandi scoperte, le grandi innovazioni, i grandi romanzi.

Siamo tutti, a nostro modo, avidi, non solo Luigi Nerini. Lo eravamo nella Roma imperiale e nella Russia sovietica. Fare di Stresa un’occasione per biasimare il “greed”, insinuando ovviamente che sia un attributo esclusivo del sistema capitalistico, è un esercizio particolarmente detestabile, dal momento che viene da gente che ha fatto del mestiere di esprimere opinioni una piccola impresa, con un rischio modesto.

Riflettiamo semmai sul fatto che la ricerca del successo dovrebbe essere contemperata dall’autocontrollo: virtù di cui oggi, in omaggio alla psicanalisi e allo show business, ci facciamo beffa. Riflettiamo su come una crisi così profonda, un anno che ci è costato il 10% del reddito nazionale ma non a tutti allo stesso modo, mette alle corde le persone.

L’economia di mercato disinnesca gli egoismi: è quell’ecosistema nel quale per arricchirci dobbiamo fare qualcosa per gli altri. Come qualsiasi sistema sociale, non trasforma gli uomini in angeli, gli uomini restano quel che sono. Ma se l’ansia di sottrarsi al fantasma della povertà spinge alcuni a truccare le carte, ogni giorno essa spinge miliardi di persone a fare diligentemente il proprio lavoro.

Innanzi ai disastri e alle tragedie, innanzi al male che capita e ci segna, smettiamola di fingere che siano i “sistemi” sociali a compiere scelte sbagliate. Le istituzioni possono contenere o enfatizzare i comportamenti, ma nessuna ci garantirà mai l’immunità da scelte che hanno esiti indesiderabili. Quelle scelte le fanno le persone, persone come voi e me, esattamente come voi e me, e ciascuna è chiamata a portarne le responsabilità.

Da Il Foglio, 28 maggio 2021

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