Einaudi ha dimostrato che si può rimanere coerenti alle idee pur mettendo le mani nell'attività di governo
Nel maggio del 1948, Einaudi viene eletto dal Parlamento primo Presidente della Repubblica, succedendo al capo provvisorio dello Stato Enrico de Nicola. Fino a quel momento, aveva speso le sue capacità intellettuali e politiche nella ricerca economica e nella predicazione liberale. Aveva vissuto il passaggio dalla fine della tradizione liberale dello Stato unitario alla ricostituzione del PLI come partito minoritario nel panorama repubblicano. Lui stesso fece parte sia della Consulta nazionale che dell’Assemblea costituente, solo che nel primo caso i liberali erano stati nominati in numero pari rispetto alle altre componenti politiche del Comitato di liberazione nazionale; mentre nel secondo caso erano centinaia di voti lontano dai partiti – diremmo oggi – di centro e sinistra.
Uno degli insegnamenti più importanti, forse il più importante, che Einaudi ha lasciato alla tradizione politica tutta e a quella liberale in particolare è stata la dimostrazione di poter rimanere coerenti alle idee pur mettendo le mani nell’attività di governo. Nell’assistere a fasi epocali della vita politica italiana, Einaudi seppe imboccare la strada di una linearità di fondo tra pensiero e azione, distante da una rigidità intellettuale che non ammette compromessi così come da un pragmatismo che rischia di dissimulare l’assenza di riferimenti ideali. La sua fu una lezione di merito sui caratteri distintivi del liberalismo e del liberismo, e di metodo su come tali caratteri possano qualificare le azioni e le decisioni inerenti i problemi concreti.
A tre mesi dall’elezione a Presidente della Repubblica, l’astigiano Umberto Calosso, esponente del partito socialista, scriveva al direttore del Corriere auspicando che il neo Presidente continuasse a intervenire dalle pagine del giornale, a dispetto del ruolo istituzionale. Della lettera, Einaudi colse non l’invito principale ma l’inciso finale, in cui gli veniva attribuita una «fede liberista secondo la quale i singoli uomini urtandosi l’un l’altro finiscono per fare l’interesse proprio e quello generale», per dare una triplice lezione di metodo, di merito e di stile.
Giudicando la descrizione del liberismo avanzata da Calosso come «un fantoccio mai esistito e perciò comodo a buttare a terra», Einaudi volle criticare un certo modo dileggiante e semplicistico di trattare e sminuire l’avversario politico, colse l’occasione per offrire una definizione limpida del carattere liberale e per dimostrare che le idee possono passare dallo scrittoio del professore a quello del Presidente senza perdere di credibilità né di coerenza.
Nella falsa definizione della posizione liberista, l’economista vedeva non tanto e non solo un errore di prospettiva, ma più in generale il pericolo degli uomini politici di recitare un copione scaraventandosi a vicenda inutili etichette, a scopo di infamia gratuita. Una lezione tanto attuale quanto disattesa. Può sembrare eccessivamente parsimoniosa la definizione per cui liberisti «sono coloro i quali ragionando cercando di precisare le ragioni ed i casi ed i limiti dell’intervento dello stato e degli altri numerosi e variabilissimi enti pubblici nelle cose economiche».
Eppure, ancora oggi, nonostante tutta l’acqua dell’antipolitica scorsa sotto i ponti, appare del tutto eccentrico un pensiero che rifletta al tempo stesso la centralità della responsabilità individuale; una buona dose di diffidenza verso la politica; la consapevolezza che le istituzioni vivono sulle gambe e nella testa delle persone che le incarnano temporaneamente; il riconoscimento che – anche per questo – gli incentivi e gli interessi politici funzionano al pari di qualsiasi altro incentivo e interesse; l’ammissione che, pure dentro al circuito politico e amministrativo, tra tutti i beni fondamentali il più scarso è la conoscenza.
Il “lasciar fare, lasciar passare” non è quindi un assioma, ma un metodo di pensiero e lavoro per dare concrete risposte nello spazio tra il meno e il nulla, in una continua sfida a cercare soluzioni ai problemi concreti davanti ai quali l’Einaudi intellettuale e economista non si sottrasse, ma grazie alla quale divenne, anzi, l’Einaudi politico e uomo delle istituzioni. In ciò sta la sua terza lezione, stavolta indirizzata a sciogliere il dilemma, che potrebbe serpeggiare nello sparuto circolo dei liberal/libertari, che prestare servizio nelle istituzioni sia una sorta di tradimento, quasi per definizione, alla causa, comportando l’accettazione dello Stato e delle sue categorie e l’annacquamento delle idee nei compromessi della politica.
Dal suo scrittoio, il Presidente economista ha invece dimostrato che il rispetto per le istituzioni, la considerazione dei vincoli della realtà economica e il riconoscimento dell’arena politica sono variabili non solo doverose, ma anche utili alla diffusione delle idee liberali a cui era legato, e di cui resta ancora il più autorevole rappresentante nell’Italia repubblicana.
da La Stampa, 26 marzo 2024