Le parole sono importanti: dare un nome a qualcosa vuol dire dargli un significato preciso, tra tanti.
Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, approvato dal Consiglio dei ministri il 10 gennaio scorso, cancella la parola «fallimento» dalle procedure concorsuali d’impresa, al fine dichiarato di evitare il discredito sociale che si accompagna alla parola.
È una scelta due volte sbagliata.
In primo luogo, gli eufemismi edulcorano la comunicazione, non la realtà. Un governo così affezionato alle polemiche contro il “politicamente corretto” dovrebbe saperlo meglio di ogni altro.
È difficile credere che chi si trovi sull’orlo del fallimento si senta sollevato al sentirsi dire che si trova ‘soltanto’ sull’orlo della liquidazione giudiziale. Finché chi governa non riuscirà a trasformare il pesce in carne, ovviamente dopo avere moltiplicato la pesca, questi battesimi linguistici non cambieranno la sostanza delle cose.
In secondo luogo, sarebbe necessaria un’operazione culturale intorno alla parola fallimento esattamente opposta a quella promossa dal governo.
Per chi fallisce, non c’è dubbio che passare per un processo di quel tipo sia una esperienza terribile e complessa. Si può fallire per errori propri o altrui, per le circostanze avverse o per valutazioni errate. Il fallimento “libera” risorse che un’economia può utilizzare diversamente. Quest’esperienza, traumatica per gli attori coinvolti, rende più forte l’ecosistema imprenditoriale nel suo complesso, consente al mercato di migliorare l’allocazione delle risorse.
Lo stigma sociale verso l’imprenditore fallito non serve a nessuno. Ma ancor meno gli eufemismi.
Un’impresa in crisi è un’impresa che si trova davanti a un bivio, un passaggio essenziale che deve portare a uno stadio diverso. Un’impresa in crisi non può temporeggiare: o chiude o si rigenera. Nell’uno e nell’altro caso, il fallimento costituisce il passaggio, certo non facile ma necessario, per trovare una valida alternativa. La difficoltà di un’impresa indica allora che qualcosa è andato storto, che le condizioni di mercato sono cambiate. Gli aggiustamenti sono dolorosi, ma ritardarli – o fingere non siano necessari – peggiora solo le condizioni del paziente. Gli unici a cui si mente per pietà sono i pazienti per cui non c’è più nulla da fare. Che sia questo ciò che davvero pensa il governo dell’economia italiana?
29 gennaio 2019