5 Aprile 2022
MF-Milano Finanza
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Ambiente e Energia
Le drammatiche immagini del massacro a Bucha hanno indotto molti leader politici europei a prendere una posizione esplicita a favore dell’embargo sul petrolio e il gas russi. Si tratta di una strada percorribile?
Sul piano etico, non c’ è dubbio che vada utilizzato ogni strumento utile a fermare Vladimir Putin. Oggi Mosca ha perso accesso ai mercati internazionali ed è in affanno; l’unico ossigeno arriva proprio dalle commodity energetiche. In verità, i compratori occidentali hanno da tempo smesso di acquistare greggio russo: questo spiega i prezzi record alla pompa di benzina.
Le cose sono assai più complicate nel caso del gas. Gran parte degli scambi internazionali riguardano metano trasportato via tubo. L’origine e la destinazione non sono determinate dalle oscillazioni quotidiane dei mercati, ma dalle infrastrutture. Ciò crea una dipendenza reciproca: l’Europa non può facilmente sostituire il gas russo, esattamente come la Russia non può dirottarlo verso altri lidi. E’ proprio questo che rende così temibili le sanzioni: almeno nel breve termine Putin dovrebbe rinunciare a un’importante fonte di finanziamento della sua guerra. Anche noi, però, avremmo un problema di eguale entità.
E’ essenziale, dunque, predisporre un piano per fare fronte all’eventuale interruzione dei flussi e, contemporaneamente, essere consapevoli dei costi che inevitabilmente anche noi dovremo sostenere. L’Ue importa circa 155 miliardi di metri cubi di gas russo l’anno (l’Italia una trentina). L’Oxford Institute for Energy Studies ha stimato che circa 70 sono rimpiazzabili in tempi brevi acquistando il gas da altri fornitori o riprendendo la produzione domestica. Resta quindi un buco di circa 85. La sua dimensione può essere limitata sia riducendo la domanda attraverso interventi di efficientamento energetico, sia ricorrendo ad altre fonti (rinnovabili, carbone, nucleare, ecc.). Ma, almeno nel breve termine, rimane una quota di gas che non è fisicamente sostituibile e che, dunque, crea l’esigenza di forme di razionamento.
Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, tagliando di un grado il riscaldamento invernale negli edifici si può abbattere la domanda di circa 10 miliardi di metri cubi. Ma è inevitabile che, vuoi per effetto dei prezzi, vuoi per l’indisponibilità fisica della risorsa nei processi in cui non esistono alternative tecnicamente percorribili, il problema finirà per tradursi in un rallentamento forzato della produzione industriale. Per esempio, un dossier del governo parla di un calo dell’output della manifattura italiana nell’ordine del 25% (una settimana di chiusura al mese).
Un team di economisti tedeschi ha ipotizzato un rallentamento del pil della Germania tra lo 0,3 e il 3%, in aggiunta al calo già messo in conto. Uno studio di Goldman Sachs parla di un calo del pil europeo di oltre due punti percentuali: in questo scenario l’Italia e la Germania sarebbero tra i più colpiti (con la perdita di 2,6 e 3,4 punti percentuali, rispettivamente). Il nostro paese chiuderebbe così il 2022 a crescita zero, se non addirittura in recessione.
Ancora più importante è capire quanto questo effetto sarebbe transitorio e quanto permanente: le imprese italiane sarebbero poi in grado di riconquistare le quote di mercato perse a causa dei blocchi produttivi? Sono domande a cui è difficile rispondere. E’ però essenziale porsele: se davvero l’embargo è una prospettiva concreta, allora bisogna predisporre contromisure adeguate. Non possiamo pensare di cavarcela distribuendo ristori e sostegni: coi soldi si possono comprare il cibo e il riscaldamento, ma solo finché il grano e il gas non mancano.
Se è l’unico modo per porre fine alla guerra, allora può valere davvero la pena sopportare questo costo. Ma la politica ha il dovere di comprenderne e spiegarne gli effetti.
da MF-Milano Finanza, 5 aprile 2022