Sull'energia c'è bisogno di una scossa

La crisi, i prezzi alle stelle, il fantasma dell'embargo sul gas russo, i danni al nostro tenore di vita e alla competitività dell'economia

11 Aprile 2022

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Ambiente e Energia

A partire dalla settimana scorsa, le famiglie italiane in “maggior tutela” pagano una bolletta della luce del gas un po’ più leggera (in entrambi i casi circa il 10 per cento in meno rispetto al trimestre precedente). Ma cosa si nasconde dietro queste variazioni? Da cosa dipendono? In che misura sono influenzate dalla crisi energetica e, ora, dalla guerra in Ucraina? Che effetti potrebbero sortire da un eventuale embargo sul gas russo?

Sono domande non solo legittime ma fondamentali. Dalla disponibilità di energia affidabile, economica e pulita dipende il nostro futuro. In questo momento, nulla di tutto ciò può essere dato per scontato: intanto non sappiamo se le forniture di cui abbiamo bisogno arriveranno regolarmente nei prossimi mesi; stiamo pagando e pagheremo prezzi senza precedenti; e, per far fronte all’emergenza, siamo costretti a riesumare fonti di cui ci stavamo liberando, come il carbone e addirittura l’olio combustibile per la generazione elettrica. Questi fenomeni rischiano di imprimere danni enormi al nostro tenore di vita nel breve termine, alla competitività dell’economia (e in particolare del settore manifatturiero) nel medio e alla qualità ambientale nel lungo.

Per cominciare questo viaggio, partiremo da una bolletta dell’energia elettrica. Non perché sia, in sé, al centro del mondo: in fondo, l’elettricità soddisfa appena un quinto della nostra domanda energetica complessiva. Ma essa si trova al centro delle due transizioni ecologica e digitale che sono gli assi portanti della strategia energetica e industriale europea. Inoltre, la continuità nel servizio elettrico è diventata sempre più la condizione di base della nostra quotidianità.

Prima di addentrarci nei dati, servono alcune precisazioni. La bolletta non è uguale per tutti. Intanto, il prezzo unitario che paghiamo è funzione di quanto consumiamo. Ha, infatti, natura trinomia: contiene una quota fissa espressa in euro per anno, una quota potenza in euro per chilowatt (kw) per anno, e una quota energia in euro per chilowattora (kwh). La prima riflette i costi legati alla mera disponibilità di accesso alla rete; la seconda dipende dall’impegno di potenza, cioè da quanta energia ciascuno può ritirare nell’unità di tempo; la terza dai consumi effettivi. Questo dà luogo spesso a fraintendimenti: infatti la bolletta non è mai zero, neppure nei periodi in cui la domanda è nulla (per esempio nelle seconde case che rimangono vuote gran parte dell’anno). La ragione è che ciascuno deve contribuire ai costi fissi che produce semplicemente allacciandosi alla rete, la quale deve essere in grado, in ogni momento e senza preavviso, di erogare il carico richiesto. Di conseguenza, se aumentano le quantità domandate, i costi fissi si spalmano su una base più estesa e incidono meno sul singolo kwh. Lo stesso vale per il gas metano. L’Arera (Autorità di regolazione per energia, reti, ambiente) fa pertanto riferimento a una famiglia tipo, che consuma 2.700 kwh di energia elettrica con una potenza impegnata di 3 kw e 1.400 metri cubi standard (Sm3) di gas all’anno per stimarne la spesa annua.

Il prezzo di luce e gas non dipende solo dalla quantità consumata. Dipende anche dalle condizioni contrattuali. Ciascun cliente è libero di scegliere il proprio fornitore oppure di rimanere sotto l’ombrello dello stato, ironicamente chiamato “maggior tutela”. Per esempio, chi ha sottoscritto nei mesi scorsi un’offerta a prezzo bloccato sul mercato libero oggi è perlopiù protetto dai rincari.

Viceversa, chi ha scelto offerte a prezzo variabile o si trova in “maggior tutela” è interamente esposto alle oscillazioni di Borsa e, dunque, cavalca l’onda dei rincari. Attualmente è in questa condizione circa il 40 per cento delle famiglie. Se il governo non avesse ceduto al populismo energetico rimandando la piena liberalizzazione anno dopo anno (adesso l’asticella è fissata al 2024), probabilmente molti avrebbero bollette meno salate. Come ha documentato l’osservatorio italiano sulla povertà energetica, nell’ultimo anno i prezzi “tutelati” sono raddoppiati, mentre quelli sul mercato libero sono cresciuti solo del 23 per cento. Per le piccole imprese (ma non le micro) il temuto passaggio è avvenuto nel luglio 2021: per loro fortuna, visto che risparmiano.

Torniamo alla bolletta della nostra famiglia tipo.

Le voci in bolletta
In questo trimestre, la famiglia tipo in tutela spende circa 41,3 centesimi / kwh, un poco di meno rispetto al precedente (46,0 cent / kwh), ma più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2021 (20,8 cent / kwh). Lo scarto è ancora maggiore se confrontato col secondo trimestre 2020, nel pieno del Covid, quando si toccò il minimo storico di 16,1 cent / kwh. La situazione sarebbe ancora più grave se non fosse intervenuto il governo con una serie di provvedimenti che, complessivamente, hanno prosciugato una ventina di miliardi di euro in meno di un anno.

Dentro la bolletta si distinguono tre grandi componenti: le imposte (4,6 cent / kwh), cioè accise e Iva; la spesa per il trasporto e la gestione del contatore (3,8 cent / kwh), cioè i corrispettivi per le infrastrutture necessarie a far funzionare il sistema elettrico; e la materia prima (32,9 cent / kwh), cioè il valore effettivo della commodity e i relativi costi di commercializzazione. E’ a causa del drammatico rally di quest’ultima se le bollette sono esplose. Un anno fa, costava meno di un terzo dei livelli attuali (9,9 cent / kwh). Nel confronto col periodo fino a giugno 2021 è scomparsa dal conto una voce tradizionalmente molto pesante: i cosiddetti oneri generali di sistema, che all’epoca incidevano per circa 4,2 cent / kwh (grossomodo un quarto del totale). Si tratta di una serie di spese che vanno dalla principale, i sussidi alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica, fino alla perequazione territoriale, al finanziamento dei bonus sociali e allo smantellamento delle vecchie centrali nucleari.

Storicamente gli oneri generali di sistema gravano sulla bolletta elettrica. In tempi normali questa prassi è stata molto criticata, perché appesantisce lo zoccolo parafiscale e “schiaccia” lo spazio concorrenziale: infatti, a parità di valore assoluto, qualunque sconto sia offerto da un venditore per attirare nuovi clienti risulta modesto se confrontato alla montagna dei costi fissi. Inoltre, il continuo sovrapporsi di voci di costo finisce per penalizzare l’energia elettrica, in netto contrasto con la spinta politica verso l’elettrificazione dei consumi. Per questo tanti – dall’antitrust alla Commissione europea alla stessa Arera – chiedevano da tempo di spostare gli oneri generali di sistema dalla tariffa elettrica alla fiscalità generale. Lo stesso ministro Roberto Cingolani ha più volte denunciato il rischio che un’escalation della tariffa avrebbe potuto compromettere il percorso di decarbonizzazione. Negli ultimi mesi i fatti hanno spinto il governo in questa direzione. Per ora in modo provvisorio e con finalità unicamente di contrasto dell’emergenza: è dunque probabile che, prima o poi, i consumatori si troveranno di nuovo sulle spalle anche questa voce.

In ogni caso, è importante distinguere due aspetti. I livelli dei prezzi elettrici in Italia sono sempre stati molto alti, specie nel confronto con altri paesi europei, e questo dipende in gran parte dalle voci tariffarie. Nel 2021 la bolletta elettrica nazionale era di circa 64 miliardi di euro (contro i 45 del 2020, straordinariamente bassa per effetto del Covid, e i 50-55 degli anni precedenti). Di questi, secondo le stime dell’rse, 7,3 miliardi servivano a remunerare i servizi di rete, 13,8 miliardi gli oneri generali di sistema, 2,7 miliardi le accise e 8,3 miliardi l’iva. La parte del leone la faceva – contrariamente al passato – la materia prima, con quasi 32 miliardi di fattura (contro i poco più di 20 degli anni “normali”). E nel 2022 sarà ancora peggio: è dunque qui che bisogna guardare per comprendere gli aumenti.

Per quanto riguarda il gas, la situazione è diversa solo all’apparenza. La composizione della bolletta è differente, con una minore incidenza degli oneri generali di sistema, una più importante delle accise, e la riduzione temporanea dell’iva dal 10 al 5 per cento. Ma l’esito è il medesimo: in questo trimestre le famiglie pagheranno un po’ meno del precedente (123,6 contro 137,3 cent / Sm3) ma poco meno del doppio rispetto ad appena un anno fa.

Le due cose sono strettamente legate: infatti, i rincari della bolletta elettrica dipendono in gran parte dall’aumento dei prezzi del metano sui mercati internazionali e, per il resto, dall’incremento del costo dei certificati di emissione della CO2. Questo ci conduce a un bivio: bisogna infatti capire sia come si formano i prezzi elettrici e perché sono tanto legati a quelli del metano, sia perché questi ultimi sono decollati.

Come si formano i prezzi dell’energia all’ingrosso
Le quotazioni del gas si trasmettono direttamente all’energia elettrica attraverso il meccanismo di formazione del prezzo in vigore nella Borsa elettrica gestita in Italia dal Gme (Gestore dei mercati energetici). I volumi scambiati in borsa corrispondono all’incirca ai tre quarti del totale: la restante parte è oggetto di negoziazioni bilaterali, per esempio attraverso accordi di lungo termine in cui un produttore si impegna a vendere, e un compratore di impegna ad acquistare, una certa quantità di energia per un certo numero di anni a prezzi prefissati.

La regola di formazione del prezzo, la stessa in tutta l’unione europea, si chiama “system marginal price”. E’ particolarmente rilevante nel cosiddetto mercato del giorno prima, cioè la sessione principale del mercato che si conclude alle 12 del giorno precedente alla consegna fisica dell’energia. Per esempio, mentre leggete queste righe si stanno chiudendo le negoziazioni relative ai prezzi orari dell’energia per la giornata di domani. E’ importante tenere conto che, sebbene la maggior parte dei piccoli consumatori paghi un prezzo predeterminato (o, al massimo, differenziato per fasce orarie), all’ingrosso i prezzi cambiano ogni ora e – dal lato dell’offerta – sono anche differenziati per zona geografica, in modo da rispettare i vincoli fisici della rete. Ciò significa che, all’ingrosso, il prezzo di acquisto è lo stesso in tutta Italia, ma chi immette energia in rete riceve un compenso differente a seconda che si trovi nel Mezzogiorno, nel Nord o nelle Isole.

Per ogni ora del giorno, ciascun impianto di produzione – dalle centrali a carbone ai cicli combinati a gas fino ai campi eolici e fotovoltaici – è chiamato a dichiarare quanta energia può produrre e a quale prezzo è disposto a venderla. Per ragioni legate al funzionamento del mercato, il prezzo di riserva di un produttore corrisponde ai suoi costi marginali cioè, essenzialmente, ai costi del combustibile: così, una torre eolica – che non paga il combustibile perché il vento è gratis – generalmente offre in Borsa a prezzi attorno allo zero. Viceversa, un impianto a gas non entrerà in esercizio a meno di ricevere un compenso tale da coprire interamente i costi del gas stesso: poiché per generare 1 kwh di energia elettrica servono, in media, 2 kwh di metano, ai livelli attuali questi impianti richiedono cifre astronomiche, nell’ordine dei 2-300 euro (o anche più) per MWH. Solo un anno fa eravamo a circa un terzo.

A questo punto, il gestore del mercato costruisce la curva di offerta ordinando gli impianti in ragione crescente dei loro costi marginali: prima vengono le rinnovabili, che hanno generalmente costi marginali nulli; poi il carbone; poi le centrali a gas più efficienti e, infine, quelle meno efficienti dal punto di vista del consumo ma in grado di accendersi e spegnersi rapidamente per coprire i picchi di domanda o l’intermittenza dell’eolico e del fotovoltaico. Il punto in cui la curva di offerta incrocia quella di domanda – cioè quando sono stati individuati abbastanza impianti da coprire interamente il fabbisogno – coincide con l’equilibrio. Il prezzo corrispondente equivale, dunque, alla spesa del combustibile per alimentare l’impianto più costoso necessario in quel momento a soddisfare la domanda.

Tale prezzo viene riconosciuto non solo all’impianto marginale (che ne ha bisogno per pagare il suo costo variabile) ma anche a tutti gli altri. Questi ultimi, dunque, ricevono un “premio” superiore ai loro costi marginali. La differenza è detta rendita inframarginale.

Prima di saltare sulla sedia, bisogna capire la ratio del meccanismo: tale rendita (a dispetto del termine infelice) non è un regalo che il sistema fa ai produttori di energia. Gli impianti non devono coprire solo i loro costi variabili (che in alcuni casi sono prossimi allo zero), ma anche i costi fissi: ripagare il capitale investito, i salari dei dipendenti, la manutenzione e così via. Il meccanismo del system marginal price si basa sul principio che le centrali con bassi costi variabili (come rinnovabili e nucleare) hanno spesso alti costi fissi. Tutto si tiene, insomma. Ma non significa che tutto vada bene.

In primo luogo, per varie ragioni il system marginal price rischia di diventare un meccanismo obsoleto. Esso è nato in un periodo in cui la curva di offerta aveva l’aspetto di una scalinata graduale. Più prendono piede le fonti rinnovabili, più essa sarà invece caratterizzata da un salto tra il ramo in cui ci sono impianti con costi marginali praticamente nulli, e quello in cui invece subentrano centrali con alti costi di combustibile. Per giunta, queste ultime dovranno lavorare per periodi sempre più brevi, perché saranno relegate a ruoli sempre più sussidiari: dunque dovranno essere impianti con bassissimi costi fissi e costi variabili molto alti. Questa drastica biforcazione del mercato allarga la forbice tra il costo marginale e il costo medio. Inoltre, tende anche a rendere l’uno sempre meno rappresentativo dei costi di produzione del sistema. Per questa ragione da tempo ci si interroga sulla riforma del sistema. Per esempio adottando il “pay as bid” in forza del quale ciascun impianto – se chiamato a produrre – viene pagato esattamente la cifra che aveva proposto in sede di asta, e non il prezzo marginale. Ci sono ottime ragioni a favore di questo sistema, tra cui la principale è che è meno esposto a comportamenti collusivi o altri abusi non infrequenti nel nostro mercato (e nel passato duramente contestati dall’antitrust).

Anche qui bisogna frenare gli entusiasmi: un differente meccanismo di pricing può limitare le patologie del mercato. L’attuale livello dei prezzi, però, è fisiologico: è figlio della tensione tra la domanda, gonfiata dalla ripresa post Covid, e l’offerta, in crisi prima per il prolungato sottoinvestimento nella ricerca di nuove risorse di oil & gas e, ora, per le incertezze legate alla guerra. Pensare che, cambiando il meccanismo di pricing, avremmo prezzi di equilibrio molto diversi da quelli attuali significa non aver capito né il funzionamento della Borsa, né le ragioni dell’attuale situazione. Anche per questo, se una riforma ben disegnata del sistema non può risolvere la situazione contingente, tanto meno potranno farlo interventi raffazzonati. In Parlamento sono in discussione emendamenti finalizzati a far entrare lo stato a gamba tesa sui mercati dell’energia: non ha senso sostituire il mercato quando funziona, come nel caso degli accordi di lungo termine per la produzione di energia rinnovabile che già oggi vengono ordinariamente stipulati tra grandi consumatori e produttori verdi. Ci sono innumerevoli esperienze che coinvolgono l’industria nazionale sotto questo punto di vista. Il tentativo di tornare a un interventismo cervellotico non è nell’interesse di nessuno.

E questo ci porta all’ultimo capitolo della vicenda: oggi chi produce energia elettrica e la vende a prezzi di mercato beneficia di un incremento spropositato dei prezzi trainato dal gas e dalla CO2. Anche i permessi di emissione, infatti, hanno subito aumenti senza precedenti: una tonnellata di anidride carbonica, che un anno fa costava circa 40 euro, adesso oscilla tra i 70 e i 100. Ciò si traduce in un incremento del prezzo dell’energia elettrica di circa il 10 per cento, a tutto beneficio dei produttori inframarginali. Con Luisa Loiacono e Leonzio Rizzo abbiamo stimato che, al netto dei maggiori costi per il gas, nel solo 2021 questo ha comportato maggiori rendite per i produttori di energia elettrica di circa 8-13 miliardi di euro (lavoce.info, 25 marzo 2022). Sono extraprofitti? Il governo ne è convinto e ha ben pensato di passare all’incasso con un’imposta straordinaria. Si potrebbe discutere la modalità con cui lo ha fatto, mettendo nello stesso calderone l’incremento dei volumi e quello dei margini, i ricavi ordinari e quelli straordinari. Ma, a prescindere da questo, le cose sono più complesse. L’esecutivo è caduto vittima di un’illusione ottica: gli straordinari profitti di molte imprese energetiche riflettono l’altrettanto straordinaria tensione tra la domanda e l’offerta. E sono esattamente lo zucchero che attira nuovi investimenti, da cui solo può venire una soluzione alla situazione attuale. Tagliando in modo indiscriminato gli utili delle imprese non si compie solo l’ennesima violazione discriminatoria dello statuto dei contribuenti: si semina diserbante dove invece ci vorrebbe del fertilizzante.

Il prezzo del gas: per tetto il cielo?
Se, dunque, i prezzi dell’energia elettrica dipendono da quelli del gas, da cosa nascono questi ultimi? Sarebbe ingenuo concentrarsi sulla guerra, che pure ha enormemente complicato la situazione. Le cause sono più antiche e più profonde; d’altronde, la corsa attuale è cominciata alla fine del 2020, man mano che il mondo si lasciava alle spalle il Covid.

La ragione è una e una sola: l’offerta di energia – in tutte le sue forme – non tiene il passo della domanda. Il problema è particolarmente pronunciato nel caso del gas, ma riguarda anche le altre fonti, fossili e no. Basti dire che, nel 2021, le scoperte di nuove risorse di oil & gas sono state le più basse degli ultimi 75 anni. Per entrare nel dettaglio ci vorrebbe un altro lungo articolo: quel che conta è che, se questa è la situazione, la via d’uscita non può stare che nel riequilibrio delle forze del mercato. Cioè la riduzione della domanda (stimolata dall’aspettativa di grandi risparmi: ecco perché le politiche di mitigazione del prezzo vanno maneggiate con cautela) e l’aumento dell’offerta (incentivata dalla prospettiva di grandi profitti: ecco perché le extra-tasse fanno più male a chi le impone che a chi le subisce).

Il governo dovrebbe, insomma, concentrarsi sui fondamentali. In parte lo sta facendo: la ricerca di nuovi fornitori di gas, le semplificazioni per le fonti rinnovabili, il rilancio della produzione nazionale, il potenziamento delle infrastrutture vanno tutti nella giusta direzione. Altri interventi, però, rischiano di rivelarsi inefficaci o addirittura dannosi. Della tassazione sugli extraprofitti abbiamo già detto. L’idea di porre un cap al prezzo del gas, poi, appare il più classico dei tentativi di costruire una casa partendo, letteralmente, dal tetto. L’idea di fondo è che, poiché l’offerta di gas in Europa è più rigida della domanda, l’imposizione di un limite tarperà le ali alla speculazione senza interagire in modo significativo con le quantità offerte. Ci sono una serie di problemi in questa proposta, che dipendono anche dal modo concreto in cui viene disegnata. Il punto fondamentale, però, sta nella lettura delle cause della crisi in cui ci troviamo: essa non dipende dalla condotta opportunistica dei fornitori (che pure può esserci e può aggravarla). Dipende dal fatto che il mondo, nel suo complesso, produce meno gas di quanto ne serve. E dunque non se ne uscirà finché queste due forze non si riequilibreranno.

Il problema di un tetto al prezzo, in altre parole, è che rischia di avere non solo le desiderate conseguenze redistributive (cioè spostare risorse dai venditori ai compratori) ma di sortire più preoccupanti effetti allocativi. Oggi l’Europa soddisfa il suo fabbisogno in misura crescente importando gas liquido dal resto del mondo: le navi metaniere approdano nel vecchio continente perché sono attirate dai prezzi (per quanto riguarda i carichi spot) oppure perché vincolate da accordi di lungo termine. Nel primo caso, un tetto può indurre quelle stesse navi a cercare lidi più profittevoli. Nel secondo, potrebbe non avere alcuna rilevanza. Si rischia, dunque, di montare una serie di interventi distorsivi e complessi sul mercato per scoprire che essi non solo non ci offrono la libertà che cerchiamo, ma potrebbero aggiungere delle catene.

Questo punto è ancora più importante nella prospettiva dell’estensione al gas delle sanzioni economiche contro la Russia. L’irrigidimento contro Mosca – che per la prima volta la settimana scorsa ha visto violare il tabù dell’energia, estendendo l’embargo al carbone – potrebbe imporre questa soluzione come gesto estremo per tagliare i viveri a Putin e accelerare la fine della guerra. Se accadrà, non solo è essenziale che i governi facciano bene i conti e definiscano un piano di intervento per far fronte all’inevitabile carenza di metano nel breve termine. E’ altrettanto importante che creino le condizioni per attirare carichi di gas da qualunque direzione – e l’unico modo in cui possiamo farlo è riconoscendo ai metri cubi addizionali il loro effettivo valore di mercato. Che non dipende dal costo di estrazione, ma dal valore di utilizzo: quanto siamo disposti a spendere pur di non spegnere il riscaldamento o sospendere le attività delle nostre industrie? La domanda può apparire cinica ma consente di illuminare l’enorme problema che dobbiamo risolvere con la luce della razionalità, anziché con quella deformante delle buone intenzioni. Non si tratta solo di scegliere tra i condizionatori e la pace, per riprendere la battuta di Mario Draghi: si tratta di assumersi la responsabilità di una scelta che avrà enormi impatti immediati, e che potrebbe precipitare il paese in una profonda recessione, e conseguenze altrettanto importanti nel lungo.

E’, infine, necessario adottare il giusto realismo nel valutare le proposte e i passi da compiere. Non abbiamo né tempo né risorse da sprecare. Si fa un gran parlare dell’installazione di 60 GW di fonti rinnovabili in tre anni. Ma siamo sicuri che sia concretamente possibile? Ha senso impegnare sussidi in questa campagna? I numeri meritano di essere approfonditi. Con questo livello dei prezzi è insultante anche solo invocare soldi statali: chi ha progetti pretenda uno stato leale e un percorso autorizzativo celere, ma non bussi alla porta del contribuente. Inoltre, anziché sparare numeri fantasmagorici, occorre capire quale effettivo contributo può arrivare dalle rinnovabili, in modo da individuare con precisione quella quota del fabbisogno per soddisfare la quale bisognerà cercare risposte altrove. Si dice, per esempio, che sono pendenti oltre 150 GW di richieste di connessione alla rete. Ma, a ben vedere, molte di esse non saranno mai messe a terra e, se lo fossero, rischierebbero di restare al palo. Giuseppe Zollino, Marco Agostini e Umberto Giuliani hanno mostrato che la realizzazione di questi 60 GW in così breve tempo “creerebbe congestioni sulla rete di trasmissione, non risolvibili affatto in tre anni, e solo in parte risolvibili in un tempo più lungo e in ogni caso comporterebbe costi aggiuntivi assai ingenti”.

Prendiamo il caso della Sicilia: attualmente ci sono progetti per circa 50 GW. Ma la domanda di punta nell’isola è attorno ai 4 GW e le interconnessioni esistenti e programmate avranno una capacità, al 2030, di poco superiore ai 3 GW. Anche ipotizzando un aumento dei consumi elettrici e magari l’impiego dell’elettricità rinnovabile per produrre idrogeno verde (e assumendo che vi sia una domanda di tale prodotto), la realtà è che molti di questi impianti resteranno solo sulla carta. E, allora, anziché sbandierare cifre con l’approccio di Roberto da Crema quando cercava di piazzare batterie di pentole e bici con cambio Shimano, sarebbe meglio cercare di capire su quanta energia addizionale, e in quali tempi, si può fare conto, e sotto quali vincoli di rete.

L’Europa si trova al centro di una triplice crisi. In primo luogo deve ridefinire gli obiettivi della politica energetica, mantenendo la barra ferma verso la decarbonizzazione ma dando l’adeguato peso alla sicurezza energetica e alla competitività dei costi, troppo a lungo escluse dall’equazione. Secondariamente deve uscire dalla stretta che ci ha travolti per effetto del deficit di offerta di energie (fossili e no). Infine deve resistere agli effetti dell’invasione criminale di Putin, che ha già aggravato la situazione e potrebbe renderla ancora più complessa se si procedesse verso l’embargo del gas. La soluzione ha diverse dimensioni e differenti sfumature a seconda che si guardi al breve o al lungo termine: ma non sta né nella riforma del mercato né nella redistribuzione di ristori o sostegni. Sta, inevitabilmente, nel ritorno ai fondamentali. Serve una domanda più intelligente e un’offerta più ampia. Servono più petrolio, più carbone, più gas, più rinnovabili e, nei paesi che lo accettano, più nucleare. Servono investimenti in capitale fisico: abbiamo già bruciato troppi soldi nel tentativo di tappare i buchi della diga con le dita.

da Il Foglio, 11 aprile 2022

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