Energia senza ideologia

Lezioni utili alla sinistra dal libro di Alberto Clò

1 Settembre 2022

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Ambiente e Energia

Abbiamo trovato il nemico: il nemico siamo noi. Si potrebbe sintetizzare così il messaggio dell’ultimo libro di Alberto Clò, Il ricatto del gas russo (Il Sole 24 Ore). In questo agile pamphlet, l’ex ministro dell’industria offre una affascinante ricostruzione delle ragioni che hanno condotto l’Europa – e, in particolare, la Germania e l’Italia – a dipendere in misura così preponderante da Mosca. E’ proprio dall’insostituibilità nel breve termine delle forniture di Gazprom che dipende la difficilissima fase che stiamo attraversando. Di più: se non potesse utilizzare l’energia come arma geopolitica, Vladimir Putin forse non avrebbe neppure sferrato l’aggressione all’Ucraina.

Clò enuncia tre tesi principali. La prima: la guerra non è frutto di un impazzimento di Putin. Anzi, nel corso degli anni egli ha seminato molti indizi che, in retrospettiva, lasciano intravvedere una strategia lineare e coerente. Ingabbiare l’Europa era parte determinante di questa strategia. Avremmo quindi dovuto leggere questi segnali e non cadere in una trappola costruita meticolosamente e con pazienza nel tempo.

La seconda tesi: le classi dirigenti occidentali – con poche eccezioni – non solo non hanno saputo decifrare le mosse del Cremlino, ma si sono entusiasticamente tuffate tra le sue braccia. Sebbene la Russia sia un fornitore di energia dell’Europa fin dai tempi dell’unione sovietica, questo rapporto è diventato patologico e ha superato i livelli di guardia solo negli anni più recenti. “La travagliata storia che ci ha portato nella bocca del leone russo – scrive Clò – è esattamente l’esito delle nostre scelte che solo una guerra è valsa a palesare e della cui responsabilità oggi nessuno è stato chiamato a rispondere”. Tali scelte includono “la generalizzata opposizione a ogni progetto che avrebbe potuto ridurre la dipendenza dalla Russia”, le “opache relazioni personali che hanno portato a privilegiare i rapporti con Putin”, le “responsabilità dell’unione europea che non si è mai opposta in maniera netta alla minaccia della dipendenza dal gas russo”, l’illusione di potersi liberare rapidamente dai fossili e che quindi non fosse necessario investire nella ricerca e coltivazione di nuovi giacimenti.

A queste cause se ne aggiunge un’altra, che costituisce la terza tesi forte del libro: è colpa del liberismo. Secondo Clò, infatti, la debolezza europea dipende in misura consistente dall’ideologia secondo cui “l’energia è una merce come le altre” e che, pertanto, lo Stato dovesse togliersi dai piedi. Da qui derivano la sottovalutazione del tema della sicurezza energetica, l’indebolimento degli ex campioni nazionali, la disgregazione delle aziende verticalmente integrate (per esempio, in Italia, la separazione di Snam dall’Eni). A dire il vero, le prove che Clò porta su quest’ultimo aspetto non convincono fino in fondo.

E’ certamente vero che la fase dell’apertura dei mercati – fortemente sostenuta dalla Commissione Ue come pilastro dell’integrazione europea – coincide temporalmente con alcune delle scelte denunciate da Clò. Ma è difficile imputare all’ingordigia capitalista la decisione (politica) di rinunciare a tecnologie come il nucleare e il carbone, gli impedimenti (politici) alla realizzazione di adeguate infrastrutture transfrontaliere, l’imposizione (politica) di sussidi e vincoli ambientali che hanno falsato la concorrenza, il divieto (politico) di sfruttare le risorse interne di oil & gas. Prendiamo il caso dei rigassificatori: oggi dobbiamo correre ai ripari e installare rapidamente due unità galleggianti a Piombino e Ravenna. Ma, fino a pochi anni fa, c’erano molteplici progetti in ballo, con alle spalle investitori privati e soldi veri. Almeno quattro erano progetti robusti e ben fatti: Brindisi (British Gas), Priolo (Erg-Shell), Porto Empedocle (Enel), Trieste (Gas Natural). Nessuna di queste opere ha poi visto la luce: ma la causa va cercata nell’impossibilità di ottenere il via libera in tempi umani. Insomma, questi atti, sebbene contemporanei alla liberalizzazione, tradiscono la falsa coscienza delle classi dirigenti europee che, pur predicando il mercato, non hanno mai del tutto abbandonato la tentazione della politica industriale. Una politica industriale che Clò non condivide e diversa da quella da lui auspicata: ma, pur sempre, una politica industriale, non la sua assenza.

La testimonianza di Clò è importante in questo momento perché affianca il rigore dello studioso alla memoria di chi ha vissuto da protagonista molti dei passaggi descritti. Ed è forse questo che lo induce a concludere con un cauto ottimismo: per quanto durissima, la fase che stiamo attraversando non è una condanna ineluttabile. Esattamente come deriva dalle nostre scelte, con scelte di segno contrario possiamo uscirne. Per farlo dobbiamo prendere consapevolezza delle risorse di cui disponiamo e sfruttarle tutte, senza paraocchi: dalla produzione domestica di oil & gas alle rinnovabili, dall’efficienza energetica al nucleare. E capire che la sfida della sicurezza energetica e della transizione ecologica non si esaurisce all’interno dei confini nazionali ma va necessariamente interpretata in ottica europea. “L’energia – conclude Clò – è un fatto squisitamente politico che rientra nella sfera della sicurezza nazionale”. E’ certamente vero che la politica ha delle responsabilità passate e future nei confronti dell’energia. L’esperienza suggerisce però che non basta criticare i governi per essersi colpevolmente disinteressati alla questione: occorre criticarli altrettanto per essersene colpevolmente interessati, prendendo decisioni sbagliate.

da Il Foglio, 1 settembre 2022

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