Alivello di competitività, le nostre industrie faticano. E l’ISTAT dimezza le stime del PIL 2024, da 1 a 0,5%. Nello specifico l’Istituto nella sua analisi precisa: «l’aumento verrebbe sostenuto dal contributo della domanda estera netta (+0,7 punti percentuali), mentre la domanda interna andrebbe in negativo di 2 p.p». E nel 2025? Il taglio è di 0,3 punti percentuali (da 1,1% a 0,8%) dove la crescita sarebbe trainata dalla domanda interna.
Come si delinea il panorama in questo scenario geopolitico?
«All’insegna dell’incertezza – dice Nicola Rossi, Professore, economista e autore di Un miracolo non fa il santo. La distruzione creatrice nella società italiana, 1861-2021, ed. IBLlibri -. A pesare su di noi c’è in particolare, ma non per tutti, la situazione. Inoltre, le produzioni Made in Italy diminuiscono, trainate dalla crisi dell’automotive. Vedi su tutte il caso Piaggio, che cessa la produzione dell’Ape nello stabilimento di Pontedera, a Pisa, che proseguirà in India, a causa delle normative ambientali europee. E poi l’affaire Stellantis che, dopo l’addio dell’AD Carlos Tavares, potrebbe portarsi dietro conseguenze occupazionali preoccupanti, come denunciano i sindacati e Federmeccanici. E come sta già accadendo a Termoli, Pratola Serra (Av) e Pomigliano d’Arco (Na).
Stellantis sta affrontando un momento particolarmente complesso nel percorso di transizione a causa della mancanza di ordini legata all’andamento del mercato dei veicoli elettrificati in Europa, che sta mettendo in difficoltà tutti i produttori, soprattutto europei», scrive sul suo sito ufficiale l’azienda, che annuncia di voler aderire all’Associazione Europea dei Produttori di Automobili (ACEA) per fare quadrato con i competitor per affrontare le sfide legate alla sostenibilità.
«Al netto di eventi di portata molto significativa, un tasso di crescita prossimo all’1% nel 2025 dovrebbe essere possibile. Non sarebbe, vorrei sottolinearlo, un risultato particolarmente entusiasmante visto che nel 2025 dovrebbe continuare e, anzi, accelerare il programma di investimenti previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
D’altra parte, l’impatto di quel programma sembrerebbe non essere stato particolarmente significativo già nel 2023 e nel 2024. Ciò detto, il nostro vero banco di prova lo troveremo non nell’immediato ma nel medio-lungo periodo. Capiremo, dopo il 2026, se gli impatti positivi del PNRR sul tasso di crescita di lungo periodo si saranno concretizzati o se invece il lascito di medio-lungo periodo del PNRR sarà solo il debito aggiuntivo. Per il momento anche la Commissione UE sembra non escludere questa seconda preoccupante possibilità».
Dopo gli anni del miracolo, la nostra economia ha smesso di crescere ed è tornata a stagnare. Quali fattori determinano la stasi di questi ultimi decenni?
«Per la precisione la nostra economia si è mossa – quando le cose sono andate bene – più o meno come il Mondo intorno a noi ci ha consentito. E, anzi, nell’ultimo trentennio le cose non sono andate affatto bene. Gli anni del miracolo economico – fra la seconda metà degli anni ’40 e la prima metà degli anni ’60 – sono gli unici in cui abbiamo mostrato una autonoma capacità di crescita. In cui abbiamo saputo spingere in avanti la nostra “frontiera delle possibilità produttive” anche più di quanto il Mondo intorno a noi ci permetteva di fare. Sono anni troppo vicini per essere dimenticati ma troppo lontani perché ognuno di noi ricordi che cosa portò a quel “miracolo”. E così ci culliamo nell’idea che quel miracolo possa ripetersi ma non ci rendiamo conto che fu la conseguenza di eventi molto specifici».
Quali mosse bisognerà fare per rilanciare la nostra economia nei prossimi anni?
«La domanda “cosa fare per tornare a crescere” è, in buona sostanza, il tema di fondo del mio ultimo libro: “Un miracolo non fa il santo”. È una domanda che è ovvio rivolgere a un Paese come l’Italia, che non cresce da trent’anni. O anche ad un continente come l’Europa che fa molta fatica a stare al passo con le economie più dinamiche del Paese. Ed è una domanda alla quale solitamente si risponde estraendo una ricetta, a piacere, da un manuale, anch’esso selezionato a piacere, di economia. Da economista ritengo che la scienza economica abbia fatto passi avanti straordinari negli ultimi decenni ma credo anche – e gli ultimi quindici anni non mi danno torto – che sia ancora una guida molto imperfetta per le scelte di politica economica.
Ed è per questo motivo che nel libro che ho citato ho preferito cercare di capire cosa ha consentito all’Italia di crescere quando lo ha fatto. Intendiamoci, non penso che le condizioni prevalenti settant’anni fa possano essere replicate oggi ma forse qualche messaggio di fondo è valido oggi come era valido allora. E questo messaggio è, molto semplicemente, che l’unica leva su cui oggi come ieri possiamo puntare è la capacità imprenditoriale, la voglia di rischiare, la capacità di trarre lezioni da ogni fallimento, il desiderio di migliorare le proprie condizioni di una parte importante della società italiana. Non sarà il bilancio pubblico a trarci fuori dall’impaccio, non saranno le riforme – pur necessarie – a farci uscire dalla buca in cui siamo caduti. Saremo noi. Chi avrà la pazienza di leggere il libro – che al netto delle Appendici è più agile di quanto non sembri – se ne renderà conto».
Quali potrebbero essere i settori su cui puntare per realizzare un “nuovo miracolo economico”, se crede sia possibile ripetere un fenomeno simile?
«Con franchezza, se partissimo così non andremmo lontano. Pensare di poter indicare questo o quel settore come quello su cui puntare significa non capire che non è possibile stabilire a priori dove e come fiorirà l’innovazione. Il nostro reale interesse non dovrebbe essere l’innovazione di ieri – l’AI–, per esempio – ma quella di domani. Quella che oggi è ancora informe. Una vera politica per l’innovazione si costruisce creando le condizioni perché si innovi, dovunque e comunque. Senza presumere di sapere quel che spesso anche gli innovatori non sanno ancora. Una presunzione infondata che è presente, ad esempio, in molte posizioni europee».
In appendice, lei dedica un capitolo a quella che definisce “industria dei salvataggi”. Qual è il suo giudizio su questo tipo di approccio di intervento?
«Quella che oggi è la vicenda Beko, che ieri era la vicenda Whirlpool e che l’altro ieri era la vicenda Indesit, si trascina da anni. Anni trascorsi nella illusione che si potesse tenere in vita una realtà economica che con ogni probabilità in vita non era più. Se le risorse che sono state in modi diversi utilizzate per inseguire questa fantasia fossero state indirizzate verso il sostegno, la riqualificazione e la ricollocazione dei lavoratori, forse oggi quei lavoratori sarebbero impiegati in settori e forse anche luoghi diversi ma comunque in attività vitali. L’industria dei salvataggi è, purtroppo, uno dei tratti costanti della nostra storia. L’indice della avversione di tanti al cambiamento.
Della distanza di tanti dai valori dell’economia di Mercato. Per fortuna qualche buona notizia non manca. Si è conclusa la vicenda Alitalia (costata cara ai contribuenti italiani) e c’è da augurarsi che lo Stato voglia anche concludere, uscendone del tutto, la vicenda iniziata con il salvataggio di MPS».
Si sta insediando proprio in questo periodo la nuova Commissione Europea, la seconda a guida Von der Leyen. Per l’Italia che descrive nel suo libro è auspicabile una maggiore integrazione europea, come strumento di un nuovo rilancio?
«Le sfide che l’Europa si trova ad affrontare – in primo luogo, a mio avviso, quella della difesa comune – sono semplicemente impossibili da affrontare se non in presenza di una maggiore integrazione che può anche non riguardare inizialmente tutti i Paesi attualmente membri. Sono sfide che certamente richiederanno risorse ingenti ma che, a mio modo di vedere, non devono necessariamente implicare il ricorso al debito. Prima che ciò accada mi piacerebbe che l’Europa facesse la sua spending review. Per fare solo un esempio, l’evidenza circa le politiche di coesione è molto mista.
Non sempre hanno funzionato e non dappertutto. Ad esempio, in Italia. Credo sia corretto verso i contribuenti europei cominciare a riallocare il budget esistente, prima di pensare ad un suo allargamento che dovrebbe peraltro corrispondere ad un contenimento dei bilanci nazionali. Il debito comune è cruciale ai fini del funzionamento di un futuro Mercato europeo dei capitali ed è quindi certamente auspicabile ma non è la soluzione di tutti i nostri problemi».
Nel prologo del suo libro si individuano due fattori che ci caratterizzano: una cultura avversa alla crescita e alla conseguente assunzione di rischi e al cambiamento. E la volontà da parte delle classi dirigenti di fare fronte ai limiti culturali degli italiani sostituendosi a essi. Tutto questo ha delle conseguenze negative…
«Vorrei chiarire. Non tutti gi italiani sono culturalmente avversi alla crescita. In ogni momento, ogni società è attraversata da correnti culturali diverse. In Italia c’è sempre stata e c’è tutt’ora una corrente culturale avversa alla crescita. Qualche anno fa, il principale gruppo parlamentare esprimeva una cultura dichiaratamente antiimprenditoriale. Ma c’è sempre stata e c’è ancora una corrente culturale che condivide i valori propri di un’economia di Mercato e li pratica. Si tratta di far sì che questa seconda corrente culturale sia in condizione di dettare l’agenda del Paese come accadde nell’immediato secondo dopoguerra. Da questo punto di vista, classi dirigenti paternaliste – che sono state quasi sempre una costante nella storia d’Italia – sono un ostacolo alla modernizzazione del Paese.
Per essere chiari: si può anche legittimamente preferire l’immobilità all’azione, lo status quo al cambiamento, ma bisogna accettare di pagarne il prezzo in termini di crescita e non solo. Gli italiani avversi alla crescita pensano invece che sia possibile che tutto rimanga dov’è e com’è ma che al tempo stesso si moltiplichino le risorse per tutti. Purtroppo, l’albero degli zecchini d’oro di Pinocchio non c’è».
Qual è la nostra attuale combinazione fra crescita ed equità distributiva (territoriale e di genere)?
«Siamo riusciti nella straordinaria impresa di smettere di crescere da trent’anni e di veder peggiorare molti indicatori distributivi. In primis, quelli territoriali. Su questi ultimi, poi, ci sarebbe molto da dire. Dall’Unità il divario fra Centro-Nord e Sud del Paese non ha fatto che crescere. Eppure, in questi 160 anni abbiamo avuto le leggi speciali per alcune aree meridionali di Francesco Saverio Nitti all’inizio del ‘900, l’intervento straordinario e la Cassa per il Mezzogiorno dagli anni ’50 ai primi anni ’90, le politiche di coesione europee e la loro declinazione nazionale nell’ultimo quarto di secolo. Risultati: zero. Eppure, c’è ancora chi pensa che la soluzione dei nostri problemi stia nel bilancio pubblico».
Sul tema della tecnologia siamo i primi IMITATORI. Lei scrive “È bene ribadirlo: acquisire (direttamente o indirettamente grazie a joint ventures con imprese multinazionali) la conoscenza tecnologica proveniente dall’estero, adattarla alle condizioni domestiche prevalenti va molto oltre la pura e semplice “imitazione”. Richiede competenze tecniche non banali, abilità spesso non comuni, capacità di adattamento tutt’altro che generalizzate. Ma – è inutile girarci intorno – è cosa ben diversa dall’attività di innovazione propriamente detta: anche qui non brilliamo per coraggio rispetto agli altri Paesi…
«Anche qua, è bene essere chiari: imitando, adattando il frutto delle innovazioni altrui alle nostre esigenze, si può anche vivere bene. Il problema è che quando poi i nostri punti di riferimento rallentano, noi ci fermiamo. E questo è un problema ancora più grande se ci si porta sulle spalle un debito pubblico grande quanto il nostro. In buona sostanza, il tema che abbiamo di fronte – che sintetizziamo nella domanda “come tornare a crescere?” – è il tema della autonomia del Paese. Della nostra capacità di camminare sulle nostre gambe. E lo stesso bisognerebbe dire per l’Europa».
Dedica anche uno spazio alla musica, o meglio alle parole che descrivono una certa cultura, in un sottocapitolo chiamato Tre canzoni: ci spiega?
«Le canzoni di grande successo ci dicono spesso molto della nostra cultura prevalente. Il Ventennio è stato fra i periodi economicamente più asfittici della storia d’Italia. Ma come poteva essere diversamente, visto che tutto ciò che si voleva era “un modesto impiego” e una vita “tranquilla” come in “Mille lire al mese”? E negli ultimi trent’anni l’Italia si è relativamente impoverita. Poteva essere diversamente, visto che il modello che si proponeva agli italiani era quello di chi non immagina nemmeno di poter andare oltre i propri limiti come in “Una vita da mediano”? L’unico momento in cui l’Italia ha economicamente “volato” è quando ha immaginato di poterlo fare come in “Nel blu dipinto di blu”.
Sono esempi divertenti. Ma ce ne sono anche di più seri. Qualche mese fa il ministro dell’Istruzione ha proposto che i valori dell’impresa privata trovassero posto nell’insegnamento di Educazione civica. Il Consiglio superiore dell’istruzione – in larga misura di estrazione sindacale – è insorto opponendosi. Dobbiamo alla determinazione del ministro se qualche ragazzo in futuro si sentirà dire che il nostro benessere dipende anche dall’attività di impresa».
Debito, spese di PA, pressione fiscale: la situazione non è buona. Lei scrive: “Non è certo un caso se nel 2011 – rispondendo, apparentemente, a un’indicazione europea relativa all’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella normativa, non necessariamente costituzionale, dei Paesi membri – il Parlamento italiano ha riscritto l’articolo 81 della Costituzione completando l’opera demolitoria avviata dalla Corte Costituzionale nel 1966. Da quella data, tanto nei giorni di pioggia quanto nei giorni di sole, il Paese non ha conosciuto che disavanzi…”. Ci dica che c’è una speranza…
«Negli ultimi due anni la gestione della finanza pubblica è stata ispirata a criteri di prudenza e di responsabilità e questo indirizzo non può che essere condiviso. Era, sotto molti punti di vista, una strada obbligata dopo un decennio in cui la gestione delle finanze pubbliche ha portato il nostro debito pubblico sulle soglie della insostenibilità. Purtroppo, a tutto ciò ha contribuito la sciagurata riscrittura dell’articolo 81 che equivale ad un “liberi tutti!”. Che tutto ciò sia avvenuto sotto l’egida di un governo tecnico sorprende ma fino a un certo punto. Ma, come dimostrano gli ultimi due anni, invertire la rotta si può. Ciò ha implicato una significativa riduzione dello spread e un contenimento degli oneri per interessi. La prudenza rende».
Come pensa che evolveranno le politiche monetarie di Fed e BCE nei prossimi mesi e come si assesteranno dopo questa fase di tagli?
«Il Governatore Panetta ha recentemente auspicato un ritorno alla politica monetaria capace di non limitarsi a registrare il passato ma capace di offrire indicazioni sul futuro. È un auspicio che condivido interamente. In questo spirito mi auguro che la fase attuale di riduzione dei tassi di interesse venga condotta con tutta la necessaria prudenza».