Nella vicenda del ponte Morandi è emersa una differenza di sensibilità fra i due partiti al governo. I Cinque stelle si sono intestati, sin da principio, la battaglia per la revoca della concessione e per la nazionalizzazione di Autostrade. L’approccio della Lega è più sfumato, severo con l’azienda, cauto sui rimedi. Ciò è stato interpretato come il riflesso di un diverso posizionamento. I Cinque stelle hanno scarsa simpatia per il settore privato, sono favorevoli a una maggiore interferenza dello Stato nella vita economica, il loro più importante bacino di voti è il Meridione, dove tradizionalmente il mercato conta poco. La Lega è ancora Lega «Nord» e, per quanto da tempo abbia abbandonato la retorica liberista degli albori, ha comunque fatto campagna elettorale promettendo meno tasse e ha le sue roccaforti nelle aree più industrializzate e ricche del Paese.
C’è però un’altra linea di faglia che il crollo di Genova ha rivelato: quella fra governi locali e governo nazionale. Mentre Luigi Di Maio suona il tamburo della nazionalizzazione, il presidente della Regione Liguria (pure molto vicino a Salvini) e il sindaco di Genova mostrano prudenza. Debbono occuparsi della gestione dell’emergenza e della ricostruzione. Per loro la priorità è che i lavori comincino, e sperabilmente si concludano, al più presto. Se ciò non avvenisse, gli elettori li riterrebbero direttamente responsabili. Loro, che «sono» le istituzioni pubbliche più prossime ai genovesi, verranno giudicati sulle «cose» e non sulle parole.
La nazionalizzazione è una bandiera ideologica, ha tempi lunghi e porta con sé enormi problemi di carattere organizzativo. Il territorio è pragmatico: vuole un nuovo ponte quanto prima. In un’Italia in cui l’opposizione è debolissima, forse il più grosso ostacolo per la maggioranza verrà proprio «dal basso».
Per quel che si capisce finora, le risorse per avviare il reddito di cittadinanza dovrebbero venire dalle «politiche attive» del lavoro, che sono di competenza regionale. I nuovi investimenti in infrastrutture dovranno passare necessariamente per gli enti locali: dire «più infrastrutture» è facilissimo, difficile è scegliere quali.
Pure nel caso di iniziative poco controverse, come la ristrutturazione degli edifici scolastici, non tutti i cantieri possono partire esattamente nello stesso momento. In più, il processo di mediazione politica sulle grandi opere, nel quale molte restano impantanate (a cominciare dalla gronda), è impensabile senza una regia locale.
L’attività di governo ha sempre due anime: la politica e l’amministrazione. La politica ha a che fare con grandi scenari, idee di riforma, appartenenze. L’amministrazione è far funzionare le cose, per quanto possibile. Questo governo è fortissimo sulla politica: se Lega e Cinque stelle sono stati premiati dalle urne è anche perché hanno vinto, negli anni scorsi, un’autentica battaglia di idee, al punto che su alcuni temi (l’Europa, il 3%, i migranti) gli avversari sembravano la loro copia sbiadita. Ma per quel che riguarda l’amministrazione, più grandiosi sono gli obiettivi e più miseri rischiano di essere i risultati.
«Nazionalizzare» vuol dire spostare competenze e persone all’interno del perimetro della Pa. Ci si dimentica spesso che questo significa che saranno sottoposte alle regole della Pa, con tutto quel che ne consegue. Sul territorio, davvero più che il colore del gatto conta che prenda il topo: o i servizi migliorano, o gli amministratori locali perdono le elezioni. E’ possibile che la trincea più solida, contro un’ulteriore espansione della sfera statale, sia proprio la loro.
Da La Stampa, 4 settembre 2018