Mario Draghi ha messo la crisi energetica al centro dell’agenda politica. Con ogni probabilità, la situazione sui mercati globali continuerà a peggiorare. Diventa allora essenziale che la politica abbandoni la scorciatoia degli slogan e si interroghi su come dare continuità alle scelte dell’esecutivo e coniugare le esigenze immediate con la sfida della neutralità climatica.
Draghi ha posto alcune questioni ineludibili. In primo luogo, ha detto con chiarezza che i partiti devono smettere di nascondersi dietro all’opposizione locale a opere che, nei vertici romani, essi stessi considerano strategiche. La vicenda del rigassificatore di Piombino è la punta dell’iceberg: un solido filo rosso unisce il proliferare di comitati del no contro pale e pannelli, le barricate contro l’estrazione di gas nazionale, l’avversione agli impianti per la cattura e stoccaggio della CO2, la guerra ai termovalorizzatori e l’impossibilità di localizzare il sito per le scorie nucleari. Le forze politiche e i corpi intermedi, incluse le associazioni ambientaliste, dovrebbero essere consapevoli che quando soffiano sul fuoco di uno solo di questi movimenti, in realtà alimentano tutto l’incendio.
Una politica su larga scala di semplificazioni, invocata da Draghi per raggiungere il target di 70 GW di fonti rinnovabili, va di pari passo con la sobrietà nell’erogazione degli incentivi. Il premier ha citato il caso del Superbonus, ma le tasche degli italiani sono ampiamente bucate da una politica che ha dato troppo, troppe volte e troppo generosamente. Ma qui il governo stesso si trova in contraddizione: la risposta all’inflazione energetica si è fondata su una lettura del problema come transitorio, che ha determinato una spesa permanente. Draghi stesso ha ricordato gli oltre 30 miliardi già spesi e ha annunciato la necessità di ulteriori finanziamenti: è sostenibile tutto ciò per le nostre disastrate finanze pubbliche? E’ tutto debito buono?
Le prossime scelte dovranno ruotare attorno a questo problema. Non solo perché dovranno fare i conti col rischio di razionamenti, ormai ammesso dalla Commissione Ue che ieri ha approvato una comunicazione sul tema esortando gli stati a fare presto. Ma anche perché l’uscita dalla crisi richiede investimenti enormi che gravano sulle spalle di quelle stesse imprese che il governo, con la tassa sui presunti extraprofitti, ha considerato non un asset ma un bancomat. E questo a dispetto del fatto che le nostre speranze di superare l’inverno ed emanciparsi dalla Russia sono legate agli accordi internazionali con nuovi fornitori. Un tour de force di cui il governo è stato protagonista e che forse ne rappresenta una delle eredità più durature.
A questo punto restano sul tavolo alcune incompiute che diventa cruciale chiudere prima delle elezioni. La prima: sbloccare la ripresa dell’esplorazione e produzione di gas nazionale. Draghi e il ministro Cingolani sono stati coraggiosi a sfidare un tabù politico, ma i provvedimenti attuativi ancora mancano. La seconda: il biometano, una risorsa preziosa per sostituire il gas russo e azzerare le emissioni, attende da mesi l’emanazione di un decreto che definisca il quadro delle regole. La terza: la liberalizzazione del mercato elettrico e gas, richiesta da anni dall’Europa e ribadita dal Pnrr, viene continuamente rimandata. Eppure oggi è evidente a tutti che questo cedimento continuo ai pregiudizi antimercato è all’origine dell’esplosione delle bollette degli italiani.
Infine, Draghi ha citato due misure da varare: l’introduzione di un tetto al prezzo del gas in Europa e la riforma del mercato elettrico “che può partire da quello domestico anche prima di accordi europei”. Se il price cap al gas sembra lontano dall’avere il consenso necessario, la revisione della borsa elettrica rischia di essere una polpetta avvelenata, specialmente in un paese interconnesso come l’Italia. Le regole sono europee e hanno una storia e delle ragioni che non si possono ignorare in nome di progetti approssimativi. Per dire, anche la Gran Bretagna sta valutando interventi in tal senso, ma segue la strada razionale dell’avvio di un dibattito pubblico attraverso un documento di consultazione.
Il messaggio più importante del governo Draghi sta nel faticoso sforzo di orientare la politica energetica italiana nel senso del realismo. Quello che è mancato è un confronto approfondito su misure che spesso sono state calate dall’alto senza spiegazione o approfondimenti e che spesso sono state modificate precipitosamente. Forse l’emergenza non lasciava alternative. Prima o poi, però, il paese dovrà uscire dall’asimmetria tra un dibattito superficiale (come sulla tassonomia, dove il governo ha giustamente tenuto duro) e interventi considerati, a torto, troppo tecnici per essere discussi e spiegati.
da Il Foglio, 21 luglio 2022