28 Aprile 2014
Genova impresa
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Può sembrare un gioco di parole, ma nulla è più complicato che semplificare. È almeno dalla fine degli anni Ottanta che si parla con una certa sistematicità di delegificazione o deregolamentazione, di fronte alla crescente consapevolezza dell’onere rappresentato dall’accumularsi di norme, regolamenti e adempimenti. Ma in realtà la questione è molto più antica, e racconta, per contrario, quale sia un’inveterata malattia italiana: quella, appunto, della complicazione. La complicazione è ben descritta dalle statistiche internazionali. Secondo il rapporto “Doing Business” della Banca Mondiale, il nostro paese si colloca solo al 65° posto in classifica. Le cause principali di un risultato così deludente vanno cercate in tre indicatori: i permessi edilizi (112° posto), l’accesso al credito (109° posto) e la complessità del sistema tributario (138° posto).
Si può guardare allo stesso problema anche attraverso un’altra indagine della World Bank, quella relativa ai “Worldwide Governance Indicators”. Pure qui sono tre gli indici particolarmente preoccupanti. “Regulatory Quality”, che misura la qualità delle norme vigenti, ci colloca attorno al terzo decile: significa che, pur essendo una delle economie più avanzate al mondo, il 30% delle nazioni ha una performance migliore della nostra. “Government Effectiveness”, relativa all’efficacia dell’azione amministrativa, ci posiziona tra il terzo e il quarto decile. Ma, soprattutto, “Rute of law”, una misura che tiene conto della certezza, prevedibilità e imparzialità del dirittto, ci confina al limite tra il quarto e il quinto decile: come dire, quasi la metà degli altri paesi possono contare su un contesto normativo più affidabile.
Le conseguenza dell’eccesso di complicazione sono, purtroppo, chiare e dolorose. In primo luogo, l’incertezza può essere caratterizzata come fattore di rischio, e contribuisce a rendere gli investimenti più costosi e meno frequenti nel nostro paese. Essa ha, dunque, un impatto diretto e significativo (in negativo) sulla crescita economica potenziale dell’Italia. Secondariamente, dove le norme sono confuse, aumenta la tentazione (e il beneficio atteso) di aggirarle: da qui un alto livello di corruzione e una ancora maggiore percezione della stessa. Terzo, e forse più grave di tutto, un panorama normativo confuso fa sì che le imprese, sia quelle che consapevolmente violano le norme sia quelle che non lo fanno, ma temono comunque di essersi rese involontariamente responsabili di qualche illecito e, in ogni caso, non vogliono subire umilianti controlli e verifiche, finiscono per avere un incentivo implicito a non crescere oltre una certa soglia. In altre parole, tra i costi della confusione normativa ricade anche, almeno in parte, la peculiare natura delle imprese italiane, troppo piccole per tenere il passo degli investimenti altrui, in particolare, nella ricerca e sviluppo. Basti dire che tipicamente le imprese italiane hanno una dimensione del 40% inferiore dalla media dell’eurozona: il 47% dell’occupazione totale è riconducibile ad aziende con meno di 10 addetti, le quali rappresentano il 95% di tutte le imprese. È evidente, allora, che la semplificazione è una delle principali sfide che il paese deve affrontare.
Contemporaneamente, però, è anche una sfida che da decenni viene in qualche modo discussa, senza che si sia riusciti a cavare un ragno dal buco o, quanto meno, senza che gli sforzi effettuati abbiano prodotto risultati sufficienti a intaccare seriamente la questione. La ragione è che la stessa battaglia contro la complessità è caduta vittima di una specie di illusione ottica, dando più peso alla retorica della “legge inutile” piuttosto che a quella della razionalizzazione delle leggi esistenti. Inoltre, il discorso sulla semplificazione non dovrebbe riguardare solo le norme, ma anche la loro implementazione.
Il principale errore del passato è stato quello di porre l’enfasi sulle norme inutili o inapplicate: certamente, fare pulizia è positivo, ma se una norma è inutile o inapplicata, per definizione non è neppure fonte di particolari problemi. Il rogo delle leggi non ha prodotto alcun miglioramento sostanziale per le imprese. Al contrario, è necessario avviare un vasto tentativo di ricognizione prima, e di sistematizzazione poi, delle norme vigenti (e che tali devono restare), allo scopo di riordinarle e renderle più facilmente comprensibili.
Un secondo errore è stato quello di dedicare ogni attenzione allo stock delle leggi, e nessuna al flusso: si possono pure abrogare tutte le norme, ma se ogni anno ne viene approvato un numero crescente, il sollievo sarà di breve durata. Questo tema interroga la qualità della produzione normativa, che si è andata abbassando nel corso degli anni: Parlamenti e Governi hanno responsabilità gravissime nell’aver emanato norme di difficile traduzione o del tutto inadeguate ai tempi, o ancora tali da preveder un numero infinito di decreti o regolamenti attuativi chefinivano per snaturarne il senso.
Un terzo errore è stato quello di ignorare l’attuazione delle norme: spesso le cose funzionano male o lentamente non (solo) perchè ci sono cattive leggi, ma anche perché le burocrazie delegate ad attuarle sono male organizzate o non dispongono di efficaci mezzi di comunicazione interna. Per fare solo un esempio, il sacrosanto principio per cui a nessun cittadino dovrebbero essere chieste informazioni che sono già in possesso dell’amministrazione, si sfascia sulla realtà di una PA frammentata e dotata di sistemi informatici e di comunicazione poco o per nulla inter-operabili. In questo senso, non è pensabile alcuna semplificazione senza passare per l’Agenda Digitale, la vera Cenerentola della nostra politica.
La semplificazione è indispensabile ma sarebbe ingenuo immaginare che basti la buona volontà per allineare l’Italia alle best practice internazionali. Per usare le parole di Arthur Bloch, il geniale autore della “Legge di Murphy”, “è semplice rendere le cose complicate, ma è complicato renderle semplici”.
Da Genova impresa, aprile 2014
Twitter: @CarloStagnaro