2 Gennaio 2022
Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
In Italia li chiamiamo «temi etici». Sono le questioni di libertà personale, i dibattiti che hanno a che fare con la sovranità di ciascuno sul proprio corpo. Sono le questioni sulle quali i partiti che sostengono il governo Draghi si sono spesso divisi nel modo più netto: pensiamo alla legalizzazione delle droghe leggere o al suicidio assistito. In generale, però, l’impressione è che la nostra società sia più «libertaria» di quelle che l’hanno preceduta. È una questione prima che politica, generazionale: nel mezzo della pandemia, i giovani italiani si sono mobilitati per un’unica battaglia, quella sul ddl Zan. Ha poca importanza che la cannabis diventi «legale» fra un anno o fra cinque: già oggi è un consumo che non fa scandalo e sono pochi i genitori inquieti se il figlio fuma uno spinello.
Questa società più libertaria dovrebbe ruotare attorno a un principio: le istituzioni pubbliche hanno il dovere di informare il singolo dei rischi che corre con un certo comportamento, ma non possono decidere per lui. L’argomento antiproibizionista non è che la cannabis faccia bene, è che non sta allo Stato giudicare cosa mi fa male e cosa no.
Nelle scorse settimane, la Nuova Zelanda ha annunciato una norma, che dovrebbe essere approvata nel corso del 2022, per cui coloro che sono nati dal 2008 in avanti, anche al raggiungimento della maggiore età, non potranno più acquistare un pacchetto di sigarette. I danni del fumo sono stati oggetto di campagne di comunicazione capillari, già oggi i minori non possono acquistare tabacco; non mancano, sugli stessi pacchetti, indicazioni chiare e anche immagini inquietanti sulle conseguenze per la salute. Perlomeno nei Paesi occidentali, è difficile trovare qualcuno che non sia informato sul tema. Tutta una serie di spazi è interdetta ai fumatori, il loro è ormai veramente un vizio privato. Eppure, in un Paese del Commonwealth, l’obiettivo di una società «smoke free» giustifica un divieto così radicale.
Dal prossimo 4 gennaio, nell’Ue non potranno più essere utilizzati inchiostri che contengono isopropanolo per realizzare disegni colorati sull’epidermide. Esistono pigmenti sostitutivi, ma non per tutti i colori. I tatuatori hanno cercato invano di fare sentire la propria voce. La sovranità dell’individuo sul suo corpo non esclude lo strato più superficiale e in generale la diffusione dei tatuaggi ha una dimensione culturale che segna, almeno in apparenza, la distanza fra il mondo di oggi e le vecchie convenzioni borghesi. Eppure, l’Ue ha inflitto un colpo importante, nel breve termine, a quest’industria senza pensarci due volte.
Non era possibile informare le persone, convincerle della pericolosità di alcuni pigmenti, alimentare, per così dire, una domanda di sicurezza «dal basso»? Una società più «libertaria» avrebbe fatto così.
Una delle eredità di lungo periodo della pandemia sarà la rinnovata centralità della salute, nel repertorio delle giustificazioni dell’intervento pubblico. C’è differenza, ovviamente, fra la possibilità di infettare qualcun altro e comportamenti che danneggiano soltanto me stesso. La questione è un’altra. Una società che ascolta gli economisti tenderà a dare la priorità a problemi economici, una società che ascolta i medici tenderà a problemi sanitari. Più importante dell’argomento antiproibizionista «di principio» diventa dunque una sorta di senso comune igienico: il tabacco fa male, la cannabis no.
Si dirà: nulla di nuovo. Sin dall’alba dei tempi, le sostanze «pericolose» sono quelle che la percezione dei più definisce tali. Ma è diverso se i temi etici scavano la trincea di una autentica emancipazione del singolo oppure riflettono pregiudizi diffusi. Elementi libertari si possono mescolare a un paternalismo di tipo nuovo: diverso ma non meno intollerante del vecchio.
dal Corriere della Sera, 2 gennaio 2021