16 Gennaio 2022
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Politiche pubbliche
A vent’anni di distanza dal debutto della moneta unica è già possibile tracciare un bilancio. In prima battuta, è bene introdurre qualche elemento di carattere teorico. All’origine dell’unificazione monetaria su base continentale, in effetti, ci sono alcuni studi dell’economista canadese Robert Mundell, che già negli anni Sessanta aveva sostenuto l’utilità di un’unione monetaria europea, ottenendo nel 1999 il premio Nobel proprio grazie a quelle ricerche.
Va detto che una moneta è un mezzo di scambio: per questa ragione, quanto più è accettata tanto meglio svolge la sua funzione. E tutti noi, in questi due decenni, abbiamo fatto esperienza di come sia vantaggioso avere una valuta che si può spendere liberamente a Como e a Parigi, a Milano e a Berlino. Ancor più, l’euro ha favorito le interazioni tra le aziende di quei 19 Paesi che hanno aderito alla cosiddetta “eurozona”.
In alcune aree europee e tra esse anche in Italia, la moneta unica è stata accolta con favore anche per altre ragioni. Da noi si è sempre pensato che avere una valuta gestita a Francoforte avrebbe potuto evitare quei processi inflattivi che hanno afflitto la nostra economia, in particolare, negli anni Settanta del secolo scorso. Le resistenze dei tedeschi, che a malincuore accettarono di abbandonare una moneta solida come il marco, erano state vinte proprio accettando l’idea che l’euro sarebbe stata una moneta particolarmente affidabile: una specie di “super marco”.
Cattive gestioni italiane
Per gli italiani, allora, entrare nell’euro rappresentava quella parziale rinuncia al controllo della nostra politica economica auspicato da molti, alla luce delle cattive gestioni pubbliche della storia repubblicana. Fu insomma una più che giustificata sfiducia verso la politica romana a spingere tanti a volere la scomparsa della lira.
È bene tenere presente, d’altra parte, che oltre a emettere valuta la banca centrale fissa il tasso d’interesse, usando la sua capacità di manipolare la moneta per orientare la vita economica.
Strumento politico
Al riguardo l’Italia ha tratto un vantaggio concreto e immediato dall’introduzione dell’euro, dato che i nostri titoli di Stato sono costati al contribuente assai meno di quanto non sarebbero costati se fossero stati emessi in lire. In tutti questi anni abbiamo giocato in maniera un po’ parassitaria, traendo vantaggio da una moneta agganciata a economie meglio funzionanti e a conti pubblici in ordine.
C’è, però, qualche altro elemento da mettere in evidenza. Non bisogna mai dimenticare che l’euro è stato ed è, in primo luogo, uno strumento politico. Introducendo una moneta spendibile a Lisbona come a Helsinki, ad Amsterdam come ad Atene, i fautori di un’Europa sempre più politicamente unita hanno voluto porre le basi per quel futuro Stato europeo che larga parte dell’élite europea auspica. E la redistribuzione dai ricchi ai poveri attuata grazie ai tassi d’interesse è stata ancor più rafforzata da un attivismo sempre crescente della Banca centrale europea nell’acquisto dei titoli di Stato dei vari Paesi. Il risultato è che oggi la Bce possiede da sola ben 160 miliardi di euro del nostro debito, con tutte le conseguenze che se ne possono trarre. Difficilmente lo stesso Mario Draghi sarebbe diventato presidente del Consiglio senza questa dipendenza dello Stato italiano dalle decisioni assunte più a Nord. Egli è stato scelto come garante, di fronte a quanti hanno investito su di noi, della solvibilità del debito.
Va però riconosciuto che l’attuale politica monetaria della Bce, basata su tassi d’interesse artificiosamente bassi e sull’acquisto dei titoli di Stato dei Paesi più in difficoltà, rappresenta una versione aggiornata del vecchio assistenzialismo. Tutto ciò ha naturalmente suscitato reazioni: al punto che nel 2013 in Germania è nato addirittura un partito, l’Alternative für Deutschland (promosso principalmente da economisti), con l’obiettivo di difendere l’idea di un euro forte ed evitare ogni forma di aiuto a favore dei cosiddetti Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). Quel partito, che oggi punta quasi tutto sulla lotta all’immigrazione (alle ultime elezioni ha ottenuto il 10% dei voti), era sorto per difendere gli interessi dei risparmiatone dei lavoratori tedeschi. Se il suo progetto è fallito è perché il ceto politico tedesco sa bene come le perdite economiche siano compensate da una crescente capacità di controllo. Quando il cittadino tedesco paga, il politico tedesco comanda: come s’è visto negli anni della crisi greca. Il risultato è che oggi Francoforte, dove ha sede la Bce, è un centro politico di primaria importanza, dato che la tenuta e la stabilità di vari Stati dipendono in larga misura dalle scelte che di tecnico hanno poco adottate dalla banca centrale.
L’alternativa ora è sempre più drammatica: perché o si continua lungo questa strada, permettendo ai Paesi male amministrati (l’Italia in prima fila) di continuare a galleggiare senza compiere riforme, oppure si pone fine a questa irragionevole espansione monetaria, si rafforza l’euro e si pongono taluni Stati dinanzi alle loro responsabilità. Facendoli anche fallire, se necessario. Una cosa è chiara: c’era ben poco di tecnico e “neutrale” nel progetto di una moneta che avrebbe dovuto favorire la costruzione di uno Stato unitario europeo; e c’è ancora oggi davvero tanta politica negli equilibri che attualmente permettono all’euro di apparire senza vere alternative.
Da La Provincia, 16 gennaio 2022