L'extratassa sugli extraprofitti

I problemi di un'imposta che si aggiunge alla precedente

3 Dicembre 2022

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Ambiente e Energia Politiche pubbliche

Quante volte si possono tassare gli extraprofitti veri e presunti? La legge di bilancio varata da Giorgia Meloni contiene un “contributo di solidarietà straordinario per il 2023” con un’aliquota del 50 per cento. Tutti si aspettavano una misura del genere, del resto annunciata in campagna elettorale dal viceministro all’economia, Maurizio Leo, fortemente critico dell’analoga tassa voluta da Mario Draghi. Tuttavia, la nuova norma non corregge la precedente ma si somma a essa. Forse dietro questa scelta c’è l’esigenza di raccogliere gettito; forse c’è un calcolo cinico (incassiamo da entrambe le tasse, poi se la Corte ne boccerà una si vedrà). In ogni caso, questa condotta rischia di generare più danni che benefici, non solo alle imprese del settore, ma anche al governo e al paese.

E’ importante capire in cosa le due imposte si assomigliano e dove si differenziano. Entrambe riguardano le imprese che “esercitano l’attività di produzione di energia elettrica, produzione di gas metano o di estrazione di gas naturale (sic), dei soggetti rivenditori di energia elettrica, di gas naturale e di gas metano (sic) e dei soggetti che esercitano l’attività di produzione, distribuzione e commercio di prodotti petroliferi”, nonché di coloro che “per la successiva rivendita importano a titolo definitivo energia elettrica, gas naturale o gas metano (sic), prodotti petroliferi”. Ma la definizione della base imponibile è molto diversa.

La prima tassa si concentra sul valore aggiunto incrementale: esige il 25 per cento della differenza tra i saldi Iva nel periodo da ottobre 2021 ad aprile 2022 e il periodo da ottobre 2020 ad aprile 2021 (quando l’Italia era praticamente in lockdown). Non è il caso di tornare sulle ragioni specifiche che la rendono odiosa: basti sottolineare che essa colpisce, di fatto, gli incrementi nei volumi dei prodotti venduti, a prescindere dagli utili. Pertanto un’impresa che ha guadagnato quote di mercato riducendo i prezzi è tenuta a versare la tassa, mentre una che ha difeso i margini pur sacrificando clienti può scamparsela (Il Foglio, 4 maggio 2022). Inoltre, l’agenzia delle entrate ne ha dato un’interpretazione estensiva. Tant’è che pochi giorni fa è arrivato il primo campanello d’allarme: il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso di un operatore e ne ha sospeso il pagamento in attesa di dirimere la questione.

La seconda tassa è meno contorta e ricalca, con poche differenze, il regolamento europeo del 6 ottobre. Colpisce, correttamente, gli utili del 2022. Se superano di almeno il 10 per cento la media del periodo 2018-2021, si applica un’aliquota Ires straordinaria del 50 per cento (in luogo di quella ordinaria del 24). Anche questo tributo ha una venatura di iniquità: a parità di utili 2022, un operatore che, negli anni passati, ha chiuso i bilanci in pareggio o in perdita – magari a causa delle restrizioni Covid – dovrà sottostare a un’aliquota media effettiva più alta rispetto a uno che, nello stesso periodo, ha sempre avuto buoni risultati. Ma il problema è un altro: il nuovo balzello si aggiunge al precedente generando una doppia imposizione per una parte dell’oggetto di imposta, che peraltro viene tassato al lordo del primo tributo, dato che questo è indeducibile.

Il governo deve stare attento alle conseguenze. Da un lato c’è una questione di iniquità orizzontale (imprese con pari utili vengono trattate diversamente); dall’altro c’è la doppia imposizione. In più, occorre riflettere sull’impatto sulle imprese energetiche. Mai come oggi a questi soggetti si chiede uno sforzo immenso di investimento. Come si può pretendere che impegnino risorse in attività essenziali per il paese (come nuovi impianti rinnovabili) se la loro liquidità viene drenata dal fisco? Tra l’altro, in un momento in cui gli oneri finanziari sono alle stelle per effetto dei rincari della materia prima: diversi stati membri hanno varato pacchetti di salvataggio per i venditori di luce e gas. Come se non bastasse, ci sono poi i cap ai ricavi dei produttori di energia elettrica introdotti da Draghi (60-70 euro/mwh per gli impianti più vecchi) e da Meloni (180 euro/mwh su tutti gli impianti diversi da quelli a gas, coerentemente con quanto previsto dal regolamento Ue). Anche qui è in corso un intenso contenzioso, con le prime (ancorché parziali) vittorie per gli operatori: il Tar Lazio ha accolto un ricorso di Italia Solare e bloccato i pagamenti.

Nel complesso la tassa Meloni, pur coi suoi difetti, è disegnata meglio rispetto a quella ereditata e segue una logica più lineare (tassare i redditi anziché i ricavi). Ma dovrebbe rimpiazzare, non affiancare, la precedente. O, quantomeno, dovrebbe essere accompagnata dal riconoscimento della deducibilità delle somme versate per entrambi i tributi, per riconciliare la realtà fiscale con la realtà della cassa delle imprese.

da Il Foglio, 3 dicembre 2022

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